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QT n. 20, 26 novembre 2005 Cover story

Quando l’assessore è un nero

Consulte, assessori aggiunti, assessori “veri”... La - ribollente e stimolante - questione dei diritti di cittadinanza degli immigrati, in un convegno a Rovereto.

Erica Mondini, Fatima El Barji

"Dove uno si sveglia al mattino, lì è cittadino. Oggi sono a Rovereto e mi sento cittadino di Rovereto".

Così esordisce Bou Konate, senegalese in Italia da 21 anni, assessore esterno ai lavori pubblici, alla raccolta differenziata e alle aziende partecipate. "Monfalcone è una città di confine, di cantieri e di lavoratori immigrati; forse per questo nessuno si è meravigliato del fatto che il sindaco abbia chiamato un africano come assessore esterno. Io non ero uno che voleva entrare in politica, ma credo sia molto positivo il partecipare. Io, nero, musulmano di origine senegalese, mi siedo accanto ad altri assessori, autoctoni. La ritengo una cosa molto positiva. La partecipazione alla vita pubblica ha contribuito a cambiare l’immagine dell’immigrato, favorendo rapporti di maggiore conoscenza e quindi di dialogo e fraternità; anche in Senegal l’immagine dell’Italia, un tempo sinonimo di mafia e calcio, ora è cambiata".

Insieme a lui erano presenti a Rovereto, sabato 19 novembre, altri immigrati, alcuni già cittadini italiani, altri no. Alcuni arrivati in Italia per motivi di studio, altri per seguire il "miraggio del benessere", a volte anche con un inizio clandestino. Sono assessori, consiglieri circoscrizionali, consiglieri comunali "veri" e aggiunti, presidenti di Consulte, comunali e provinciali. Qualcuno tra gli italiani presenti osserva che questi sono immigrati speciali, emancipati, completamente inseriti; eccezioni quindi da non accomunare con la generalità.

Certamente si può dire che sono immigrati consapevoli del proprio ruolo. Sanno di essere doppiamente "ambasciatori", in Italia e nel loro paese, "ponte tra la società italiana e gli stranieri", "portatori di speranza per gli altri immigrati".

Sanno che la loro presenza nelle istituzioni abitua, forse anche costringe, gli italiani a cambiare occhiali: a passare da uno sguardo paternalista ad uno sguardo paritario, da uno sguardo massificante ad uno individualizzante, uno sguardo che "vede" le persone, gli individui e i loro diritti.

La questione dell’effettiva utilità di organismi di rappresentanza degli stranieri, quali le Consulte ed i consiglieri aggiunti, è una delle più controverse.

"Consigliere aggiunto? Non lo condivido, non ha un ruolo determinante, è una partecipazione parziale" - diceMamadou Seck, senegalese in Italia da 17 anni, consigliere comunale di Trento.

Anche Cecile Kashetu Kienge, della Repubblica Democratica del Congo, in Italia da 20 anni, consigliera circoscrizionale a Modena, è sulla stessa linea: "Mi sono candidata, perché avevo capito che non c’è una voce per gli immigrati, neanche nelle consulte".

Bou Konate ha invece una visione più ottimista: "Le consulte ed i consiglieri aggiunti sono passaggi intermedi, momenti imperfetti di partecipazione, ma sono importanti, perché permettono agli immigrati un approccio alle istituzioni".

Non è tenero l’avvocato Marco Paggi, dell’Associazione Studi Giuridici Italiana. Per lui gli organismi di partecipazione riservati agli stranieri non sono spazi di vera democrazia, ma formule vuote di significato e di vero potere, in cui poco si può discutere e ancora meno si può decidere. Questo accade, afferma, perché in realtà "le amministrazioni, i politici, non sono abituati alla consultazione"; non ascoltano nemmeno la voce dei cittadini italiani, figuriamoci quella degli immigrati. Se poi le Consulte sono elette sulla base dell’appartenenza nazionale, rischiano di "etnicizzare" il territorio e la politica, di essere formule di autorappresentazione di singole comunità, più che luoghi in cui l’immigrato dibatte da cittadino sulla base di idee, progetti, obiettivi.

L’avvocato tuona contro la legge Bossi-Fini, ma non risparmia nemmeno la Turco-Napolitano, rea di aver previsto in un primo tempo il diritto di voto, ma di averci poi rinunciato per eccessiva prudenza, ammantata da timori d’incostituzionalità. In realtà, egli dice, la nostra Costituzione non vieta il voto agli stranieri; prevedendo il voto per "tutti" i cittadini italiani, intendeva ed intende essere una formula di garanzia, di allargamento del suffragio, non certo di limitazione e di esclusione. Non occorre, quindi, una modifica della Costituzione, "è sufficiente una legge ordinaria per dare il voto agli stranieri, com’è avvenuto per i cittadini comunitari".

Gli immigrati presenti, pur ammettendo che l’acquisizione della cittadinanza e del diritto di voto è il traguardo finale, non demonizzano le formule di partecipazione a loro riservate, le "piccole cittadinanze": l’importante è avere voce, esserci, a partire dalle assemblee di condominio.

"Cittadinanza sì, quindi, ma prima ancora partecipazione, in tutti i luoghi della vita quotidiana ed in quelli istituzionali, per favorire la coesione sociale", dice Reginald Ihebon, presidente della Consulta degli Stranieri di Modena, recentemente coinvolto in un dibattito mediatico con un leghista, il quale pretendeva essere la cittadinanza formale presupposto inderogabile per la partecipazione.

Joud Mahjoub, consigliere aggiunto di Novellara, non si sente certo meno importante del suo collega Youssef Salmi, consigliere "vero", e dichiara con orgoglio l’appartenenza politica e l’importanza di farla, la politica, di avere voce comunque, prima ancora della cittadinanza: "La cittadinanza non è una cosa da regalare, deve essere basata sulla partecipazione".

E Salmi Youssef, suo collega consigliere "vero", lo dice chiaro: "Oggi sono cittadino e consigliere, ma ho iniziato da clandestino. Quattro anni e mezzo di dignità persi. All’inizio si è solo oggetti passivi e il percorso per diventare soggetti, protagonisti della propria vita, è difficile".

Anche Cecilia Campillo, della Repubblica Dominicana, consigliera circoscrizionale a Trento, rileva questa difficoltà: "A tanti non interessano il diritto di voto e l’acquisizione della cittadinanza perché hanno ancora problemi di casa e lavoro".

Gli ostacoli alla partecipazione attiva non sono solo materiali, ma spesso anche culturali: "Il grado di consapevolezza, da parte della comunità immigrata, per quanto riguarda la partecipazione alla vita pubblica è bassissimo - afferma Konate - perché gli immigrati provengono da paesi non democratici e spesso non hanno la cultura della partecipazione.".

Altro elemento che incide negativamente "è l’instabilità del progetto migratorio - continua l’assessore di Monfalcone -; finché l’immigrato ha un piede nel paese di provenienza e l’altro nel paese d’arrivo, non potrà partecipare, essere cittadino".

E’ questo un passaggio difficile, che va accompagnato creandone le condizioni, ma presuppone anche una decisione fondamentale da parte dell’immigrato: quella di restare. Si tratta di una scelta faticosa, anche perché le nostre leggi producono provvisorietà, tendono ad impedire la stabilizzazione, rendono precaria la permanenza e la vita nel nostro paese.

Il miraggio del migrante

Prima di partire mi dicevano che le strade erano lastricate d’oro.

Quando sono arrivato, ho scoperto tre cose:

uno, che le strade non sono lastricate d’oro;

due, che le strade non sono lastricate affatto;

tre, hanno chiesto a me di lastricarle.

Può così capitare che, anche se sei nato in Italia, quando compi i diciotto anni, scopri di essere uno straniero: hai solo un anno per chiedere la cittadinanza. Se non ti affretti a farlo, diventi clandestino. Oppure che la casa in cui abiti risulti inadeguata ad ospitare te e la tua famiglia, pur essendo identica a quella dei tuoi vicini italiani. Oppure, se sei un lavoratore stagionale, rischi, tra l’estate e l’inverno, di perdere il permesso di soggiorno.

Spesso, ricorda Adel Jabbar, docente di Sociologia delle migrazioni a Ca’ Foscari, che coordina e modera il dibattito, la condizione di doppia appartenenza innesca nell’immigrato un delicato e sempre precario equilibrio, che si traduce concretamente in una doppia assenza; considerato forza lavoro qui, rimessa (cioè fonte di reddito) nel paese di provenienza, rischia di vivere una situazione di esclusione e di emarginazione ovunque.

Una cosa risulta chiara alla fine della giornata: dobbiamo affrontare una seria autocritica rispetto alle modalità con cui pensiamo e ci occupiamo di immigrazione, come istituzioni, associazioni, individui.

Il nostro è ancora prevalentemente un approccio che Jabbar definisce di "integrazione subalterna", legato ad una visione dell’immigrazione come problema sociale da gestire e controllare; il nostro modo di pensare - egli afferma - anche se in forme meno esplicite, è ancora quello di Kipling, per il quale il colonizzato rappresentava il fardello dell’uomo bianco. "Oggi sono mutate le condizioni e le politiche, ma rimane questa visione delle popolazioni impoverite e/o portatrici di altre visioni o modelli culturali, come fardelli, o come popoli arretrati."

Superare questa mentalità, passare ad un approccio in termini di "uguaglianza emancipante", è indispensabile. Si tratta di un atteggiamento ancora scarsamente diffuso, che nasce dal riconoscimento del valore dell’individuo e dei suoi diritti fondamentali, fondato sul rapporto diretto e interpersonale con l’immigrato; un atteggiamento che impone il superamento dell’impegno sociale come contenitore di problemi, per arrivare ad un rapporto paritario di rispetto, ad un "progetto di compartecipazione che vada oltre le espressioni di una solidarietà, verso una politica dei diritti".

La strada per ottenere il voto sarà ancora lunga, ma l’importante è parlarne, è riconoscere il diritto a partecipare, è lavorare insieme. Gli immigrati che abbiamo incontrato non sono per una cittadinanza solo formale, ma vissuta concretamente e quotidianamente, abitando tutti gli spazi possibili, gli stessi luoghi, le stesse idee, gli stessi progetti politici, insieme agli italiani, senza recinti particolari o settarismi etnici, a prescindere dalle appartenenze nazionali e religiose.

"Bisogna costruire il percorso all’interno della comunità - conclude Cecile -, la crescita va fatta con la popolazione locale."

A porte chiuse, nonostante la stanchezza, gli organizzatori già guardano al futuro; questo primo appuntamento, per il momento unica occasione di confronto organizzata in Italia sull’esperienza di partecipazione dei migranti, dovrà avere un futuro.

Potrebbe diventare un’opportunità per incontrare, oltre agli immigrati, anche le amministrazioni all’interno delle quali essi sono presenti.