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QT n. 15, 18 settembre 2004 Cover story

ONG: la nostra meglio gioventù indica la strada

Dopo il rapimento delle due Simone: le Ong, le manifestazioni congiunte con gli islamici, la possibilità di sfuggire alla spirale terrore-odio-guerra. La lezione, i limiti, il nuovo importantissimo ruolo delle esperienze di volontariato internazionale.

Il rapimento delle due Simone (a prescindere dal suo esito, su cui tutti non possiamo che sperare) ha comunque posto all’attenzione internazionale la realtà delle Ong. L’attività di "Un ponte per Baghdad", di disinteressato supporto alla popolazione irachena e di denuncia delle responsabilità occidentali, finendo, pur in maniera così drammatica, sotto i riflettori internazionali, ha acquisito nuovi dirompenti significati. Da momento di testimonianza è diventata momento propriamente politico. Perché ha evidenziato, di fronte al mondo intero, un punto di grande impatto ed enorme attualità: il fatto che il rapporto cristiani-musulmani, occidente-islam può essere un incontro, non uno scontro.

Baghdad: la prima delle manifestazioni per la liberazione delle due Simone.

Quando a Bagdad si scende in piazza a chiedere la liberazione delle due italiane; quando in tutta Italia su questo si ha una convergenza fra la popolazione italiana e l’intero mondo islamico, si crea un fatto nuovo. Si dimostra che tra occidente e islam ci può essere un’ampia cultura e interessi di fondo comuni. Che gli immigrati sono parte integrante, linfa e sangue, della nazione. Che le guerre di civiltà sono l’approdo cui tendono pochi fanatici, qualche spregiudicato politicante, alcuni disgustosi intellettuali; e non è il caso di delegare a costoro i destini dell’umanità.

Di questo parliamo con due esponenti di "Un ponte per Bagdad". Il trentino Emiliano Bertoldi, già collaboratore di QT, nei mesi scorsi in Iraq, a Bassora, e attualmente in Serbia. E Beatrice De Blasi, pugliese ma residente a Trento, responsabile del Tavolo trentino con l’Iraq, a suo tempo impegnata in progetti nei campi profughi palestinesi in Libano.

Come valutate le reazioni del mondo islamico da una parte, e della popolazione italiana al rapimento delle due Simone?

Bertoldi: Direi che la reazione del mondo islamico è l’elemento più significativo, già evidente nel caso dei giornalisti francesi con gli islamici di quel Paese che – pur lottando contro la stupida legge sui simboli religiosi di uno Stato che rasenta, nel suo laicismo, il fanatismo ideologico – hanno rifiutato categoricamente il "sostegno" terroristico alla loro lotta.

Emiliano Bertoldi a Bassora: sullo sfondo, un ponte sull'Eufrate.

Non che in passato non ci sia stata mobilitazione da parte islamica – anche se non quanto ci si sarebbe aspettati per esempio in occasione delle grandi manifestazioni contro la guerra – ma con il caso delle Simone (così le abbiamo sempre chiamate nel Ponte: al plurale), di Ra’ad e di Manhzan è finalmente diventato chiaro quanto l’Islam sia parte integrante dell’Europa che vogliamo costruire. Certo non mancano gli idioti – da una parte come dall’altra – ma sicuramente si tratta del miglior antidoto e risposta a chi vuole ridurre tutto allo scontro di civiltà.

De Blasi: Il fatto che questa reazione sia scattata nel mondo islamico italiano proprio per questo rapimento è probabilmente dovuto al riconoscimento non solo del lavoro umanitario di "Un ponte per…" ma anche a quello di denuncia politica: sulla prima guerra del Golfo, sulla seconda, sulle conseguenze dell’embargo. Non dimentichiamo che erano state proprio le Simone a denunciare la realtà dell’occupazione, delle vittime civili sempre sottaciute; fino a quella, sconvolgente ma che non ha avuto seguito adeguato, degli arresti arbitrari, tra cui quelli di donne di cui non si conosce la sorte, operati dalle truppe italiane. Mentre l’insieme dei media sono invece tesi alla consolatoria descrizione delle nostre truppe come portatori di pace.

Bertoldi: A livello internazionale, mi ha particolarmente colpito la notizia che perfino il leader radicale algerino abbia cominciato uno sciopero della fame in protesta e – se non sbaglio – anche Hamas (formazione terrorista palestinese dr) abbia chiesto la loro liberazione. Non che voglia accompagnarmi a simili personaggi nel mio percorso politico personale – che è rigorosamente nonviolento - ma il fatto dimostra che persino l’integralismo islamico, anche quello violento, ha diverse sfumature di cui tener conto.

Beatrice De Blasi.

De Blasi: Infatti anche gli Hezbollah (formazione militare palestinese operante dal Libano ndr) hanno chiesto la liberazione delle Simone. Ritengo che grande peso in questo abbia avuto proprio il nostro lavoro: la sopravvivenza dei palestinesi nei campi profughi libanesi è dipesa dall’intervento delle organizzazioni umanitarie. Che hanno acquistato sul campo una credibilità.

E lo stesso discorso va fatto per Baghdad: dove solo spostarsi è un’impresa rischiosa, manifestare poi significa esporsi fisicamente. Ebbene, donne, uomini, bambini irakeni hanno sfidato tutto questo per chiedere la libertà per le Simone.

E’ utopistico intravedere, sulla guerra, la costituzione di un "idem sentire" tra parti consistenti dell’opinione pubblica europea ed islamica?

Bertoldi: Forse è ancora presto. Come dicevo, siamo al paradosso che mentre nel mondo arabo e mussulmano ci fu una grande mobilitazione popolare – in genere non proprio democratica – contro la guerra in Iraq, in Italia e in Europa il coinvolgimento delle comunità islamiche non è stato proporzionale al loro peso reale nelle nostre società. Certo, la maggior parte degli islamici sono immigrati e hanno altro a cui pensare, poi avranno subito il timore dei essere identificati con il regime di Saddam temendone le conseguenze (vi immaginate cosa avrebbe scritto Vittorio Feltri?), ma rimane il fatto che le mobilitazioni pacifiste in Europa sono state essenzialmente "europee", di sinistra e "colte". Tuttavia numerosi segnali ci dicono che forse le cose stanno cambiando. I Social Forum dovrebbero sforzarsi di avere un ruolo in questo senso – rinunciando alla deriva ideologistica che stanno prendendo – mentre i partiti del centro-sinistra dovrebbero finalmente far capire all’opinione pubblica dove stanno: politicamente e non buonisticamente.

Come valutate la credibilità delle Ong presso le popolazioni del Medio Oriente?

Bertoldi: E’ una delle domande da 100 milioni di Euro. Immagino che le cose cambino da Paese a Paese, da ceto sociale a ceto sociale. Le Ong hanno dei grossi limiti nella relazione con i territori, per cui io posso dire quale fosse la credibilità di alcune di queste organizzazioni presso una parte "privilegiata" della popolazione irakena: quella che ha avuto la possibilità di entrare in rapporto con me in quel periodo. Ed era buona, anche se critica nei confronti di molte organizzazioni.

Simona Pari
Simona Torretta

Le Simone sarebbero in grado di dirvi meglio quale fosse il sentire dei ceti più popolari - a Sadr City, per esempio – visto che lavorano con loro. A giudicare dalle manifestazioni che si sono svolte anche a Baghdad mi sembra di poter dire che lo sforzo di "entrare" nelle comunità sia infine riuscito, ma non so se la cosa si possa dire per tutte le Ong.

De Blasi: E’ indubbio che la realtà della guerra in Irak è emersa soprattutto per l’attività dei volontari. I giornalisti, anche se animati dalle migliori intenzioni, sono costretti negli alberghi; non possono avere le informazioni, la rete di rapporti con il territorio che hanno i volontari. E questo si sa ed ha conseguenze.

In questa dinamica, le Ong acquistano un nuovo ruolo?

De Blasi: Prendiamo gli obiettivi di democratizzazione dell’Irak e del Medio Oriente oggi sbandierati come motivazione dell’occupazione; e prendiamoli per buoni. La realtà sta insegnando che non si possono perseguire con le bombe, o armando una fazione contro un’altra. Noi siamo portatori di tutt’altri metodi, che a mio avviso si stanno rivelando molto più efficaci: nei nostri dispensari, nelle nostre scuole, ci si trova ogni giorno di fronte ai problemi dei rapporti interetnici, interreligiosi; con i contatti, con il dialogo questi problemi si possono affrontare e superare. Questa è la diplomazia dal basso, fondata sulle relazioni, che genera fiducia verso di te e gli uni con gli altri.

Bertoldi: La riflessione sulle Ong sarebbe lunga e articolata; io posso solo cercare di sintetizzarla per sommi capi. Io appartengo a quella ormai nutrita schiera di "addetti ai lavori" che nel corso di questi anni ha sviluppato una forte critica al mondo delle Ong, in parallelo alla loro progressiva perdita di politicizzazione. La stragrande maggioranza delle Ong sono ormai diventate delle società di implementazione di progettualità pensate altrove, con logiche politiche non propriamente appartenenti al loro milieu di origine. In questo senso lo sforzo – doveroso – di sviluppare competenza e professionalità degli operatori (come dimostrano le decine di master e corsi di formazione che vengono offerti), a scapito però di una relazione con il territorio di origine e – spesso – con quello ove si opera.

Professionisti buoni per ogni latitudine e ogni situazione, insomma.

L’invenzione della categoria dell’"Umanitario" poi - con il definitivo (e giusto) superamento della storica distinzione tra sviluppo ed emergenza - ha poi fatto il resto, sancendo di fatto il mito di una presenza a-politica dell’organizzazione umanitaria. Cosa chiaramente non solo impossibile ed insensata, ma altamente pericolosa se pensiamo ai danni che un operatore può fare su un territorio credendo di non avere impatto politico.

A questa crisi si è cercato di rispondere con la cooperazione decentrata o comunitaria, quella fondata non sulle omni-competenze delle Ong ma sulle risorse dei territori, delle comunità e sulla messa in relazione e in rete delle stesse. E’ l’idea che sta alla base dei tanti Tavoli di cooperazione sorti in Trentino negli ultimi anni, dei quali quello con l’Iraq è solo l’ultimo nato. Certo, si tratta di una forma di ri-politicizzazione della cooperazione diversa da quella – ideologica o religiosa – che era alla base del movimento delle Ong, ma è comunque un modo per ridare peso politico alla cooperazione e "competenze" di politica estera ai territori e ai soggetti messi in circolo.

Va per altro fatta una distinzione. L’"umanitario" ha trionfato in Kossovo e – probabilmente – in Afghanistan. Già in Iraq si è assistito ad un parziale recupero del ruolo politico delle Ong: nella loro critica all’occupazione, nel diffuso rifiuto – a volte solo per motivi di sicurezza ma spesso con precise connotazioni politiche – di collaborare con i governi occupanti. Per questo è ancora più inquietante quanto successo a Baghdad la settimana scorsa. Tanto più se è successo ad Un Ponte per… , che mai aveva rinunciato alla dimensione politica della propria azione, al rapporto con le comunità italiane oltre che irakene e che poteva vantare – per questo avevo accettato di lavorare con loro – una presenza storica e reale sul territorio e di non essere arrivato a seguito del "circo umanitario" e dei finanziamenti internazionali.

Ma queste sono solo riflessioni: ciò che mi preme ora è la liberazione dei miei quattro amici…