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QT n. 19, 8 novembre 2003 Servizi

Libertà liberatrice

In memoria di Alessandro Galante Garrone.

So che da chi scrive ci si aspettano note che riguardino il Sudtirolo, ma questa volta vorrei fare un’eccezione. Una notizia mi colpisce, la morte di Alessandro Galante Garrone, magistrato e "padre della patria". La lettura dei suoi scritti è stata importante per la crescita della passione civile di chi scrive. Niente a che fare con il Sudtirolo, dove è noto non stanno di casa né l’antifascismo né tanto meno il liberalismo.

Alessandro Galante Garrone (terzo da sinistra), nei primi anni del dopoguerra in compagnia di altri tre esponenti di Giustizia e Libertà: Piero Calamandrei, Livio Bianco e Giorgio Agosti.

Fu magistrato, antifascista, rappresentante del Partito d’Azione nel CLN del Piemonte. Dopo il 1963 lasciò la magistratura per diventare docente universitario di Storia contemporanea e del Risorgimento e autore di centinaia di articoli apparsi su diverse riviste e giornali, fra cui la Stampa di Torino, su argomenti sempre inerenti al suo impegno di democratico radicale. La sua scrittura precisa ed elegante trasmette un’impressione di estremo rigore morale unito ad un profondo interesse umano. Fu chiamato "il mite giacobino"; unì il coraggio delle proprie idee alla passione civile e politica. Dedicò un suo libro ai maestri del suo tempo - Omodeo, Calamandrei, Einaudi e Salvemini - e già dai loro nomi si intuisce la sua formazione.

In una raccolta di articoli che erano apparsi sulla Stampa, prese a prestito da Adolfo Omodeo l’espressione di "libertà liberatrice", la fece propria e vi trovò la sintesi della democrazia radicale. Partiva da Mazzini, che definiva "l’uomo che aveva rimproverato al liberalismo del suo tempo di avere per motto ‘libertà per chi la possiede’, e indicato la via di una perenne conquista di libertà da parte di uomini, e classi, e popoli asserviti".

"La storia d’Italia e d’Europa - scrive nel 1960 - aveva insegnato che la libertà, per sopravvivere, deve espandersi, e ampliare la cerchia dei liberi".

Per la libertà degli altri si era impegnato direttamente durante il fascismo, non a favore di una o di un’altra parte, ma della libertà, sorretto dal dovere di coscienza. Come scrive lui stesso, "una lotta… non importa se ignorata dai più, condannata a restare per sempre ignorata; ma che in certi casi, imposti dalla durezza dei tempi, può giungere perfino al sacrificio oscuro eppure totale di sé, o all’impeto della rivolta".

Per la libertà degli altri si batté come magistrato e come pubblicista nel dopoguerra, sostenendo una giustizia adeguata ai tempi, difendendo giudici che venivano messi sotto accusa perché si ribellavano all’ingiustizia sociale della giustizia rimasta sostanzialmente legata ad una pratica e ad una legge burocraticamente fasciste; criticando l’abuso di potere; sostenendo, anche in una famosa polemica con Massimo Mila, comunista e favorevole alla pena di morte, l’inutilità e il non diritto dello Stato di uccidere; impegnandosi appassionatamente per la riforma del diritto di famiglia e a favore dell’istituto del divorzio; e per la parità di diritti fra uomo e donna.

Un pensiero fermo nella certezza del diritto di ogni essere umano in ogni luogo della terra, alla giustizia e alla libertà, non enunciazione teorica, ma impegno concreto. Tenne viva la memoria dei pensatori liberi, caduti nella lotta contro il fascismo, e dimenticati dall’abbraccio post-bellico fra popolari e comunisti.

Fece più volte notare l’ironia del destino, che fa sì che siano proprio gli antifascisti e le vittime del fascismo a studiarlo, e a impegnarsi perché non sia dimenticato.

Indicò nella libertà, prima di tutto quella religiosa, e nell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, "con pari dignità sociale", i due principi fondamentali della democrazia da costruire. Ma, scrisse, "non ci si può appagare di un astratto riconoscimento".

Considerava la libertà religiosa la progenitrice di tutte le altre libertà, e sottolineò sempre il nesso fra libertà ed eguaglianza, incitando alla vigilanza affinché esso non venisse spezzato o allentato nella realtà quotidiana.

In uno scritto successivo alla caduta del muro di Berlino, ricordando un’immagine di Piero Calamandrei sui diritti di libertà, che non sono "come il recinto di filo spinato entro cui il singolo cerca scampo contro gli assalti della comunità ostile, ma piuttosto come la porta che gli consente di uscire dal suo piccolo giardino sulla strada", si trova quello che fu il suo compito incessante: espandere la libertà, in sé e negli altri, in tutte le sue forme, e per tutte le contrade del mondo.

Un insegnamento vivissimo, che nel momento di confusione, in cui la società diventa "liquida" (come la definisce Zygmunt Bauman), Alessandro Galante Garrone diventa un faro luminoso per chi è alla ricerca di punti fermi su cui costruire la società democratica del futuro.

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