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Referendum:  sì, no, o cosa?

Spesso i referendum portano con sé due significati. Il primo è manifesto ed espresso nel testo del quesito, il secondo, quasi sempre non dichiarato, dipende dal valore che l’iniziativa referendaria assume nel contesto politico in cui è presentata, dagli equilibri che questa va a toccare.

Sergio Cofferati e Guglielmo Epifani.

Il peso e la rilevanza politica del referendum di Rifondazione Comunista stanno in questo secondo aspetto, e da questo partiamo. La volontà e il fine politico cui tendevano le battaglie di Sergio Cofferati ( vedi Roma, sabato 23 marzo) era riunire il cosiddetto "mondo dei girotondi" all’interno dell’Ulivo. Al raggiungimento di questo obbiettivo era dovuto il suo continuo ribadire l’appartenenza e la permanenza nei DS e i frequenti tentativi di dialogo a distanza con Romano Prodi.

Se quest’operazione fosse andata in porto, a farne le spese a sinistra sarebbe stato il partito di Fausto Bertinotti, che si sarebbe visto sottrarre la base elettorale degli indignati di sinistra (verso il centro-sinistra) dal quale pesca gran parte del suo 5%. Per questo motivo (sfruttando un eccesso retorico di Cofferati, che definì l’articolo 18 "diritto assoluto di cittadinanza") con cinismo e malignità, Rifondazione ha raccolto le firme e proposto questo referendum, con la volontà di riproporsi agli italiani come il solo referente istituzionale per un certo tipo di battaglie e di valori.

Andiamo brevemente al testo del referendum. La domanda cui gli italiani sono chiamati a rispondere è sostanzialmente questa: volete che i diritti derivanti dall’articolo 18 siano allargati anche alle aziende con meno di 15 dipendenti?

Un referendum con un quesito simile era stato proposto nell’89 da Democrazia Proletaria e poi scongiurato con l’approvazione di una legge che garantiva un risarcimento economico in caso di licenziamento per ingiustificato motivo. Attualmente quindi, se si viene licenziati per ingiusta causa in una piccola impresa, il titolare è tenuto a pagare un indennizzo che va dalle 2 alle 6 mensilità di stipendio; a questo il referendum vuole affiancare la possibilità della riassunzione.

Il piano "rifondarolo" ha centrato il bersaglio e ha suscitato imbarazzi, tentennamenti e liti in quel centro-sinistra che, appena un anno fa, si era mostrato coeso nella difesa dell’articolo 18.

Le posizioni e le indicazioni di voto che attraversano la scena politica in questi giorni sono diverse e diversi sono i segnali e le conseguenze (sia politiche che economiche) che ogni opzione di voto comporta.

Se passasse il sì, i titolari di una piccola impresa, per non correre il rischio di tornare a lavorare a stretto contatto con una persona licenziata, tenderanno ad assumere i nuovi dipendenti con contratti atipici e flessibili, grazie ai quali è più facile assumere e licenziare. Votare sì avrebbe però senso in un altro caso. Un referendum abrogativo, infatti, richiede, per essere valido, che il 50% più uno degli aventi diritto vada a votare. Tuttavia è ragionevole pensare che, data la vicinanza con le elezioni amministrative, la collocazione all’inizio delle vacanze e la specificità del quesito, il referendum il quorum non lo raggiunga; votare sì avrebbe quindi una semplice funzione di indirizzo politico, suggerirebbe la direzione verso la quale riformare il mercato del lavoro.

Ma nemmeno i soggetti preposti alla tutela del mondo del lavoro sono compatti. CISL e UIL boicottano questo referendum, la CGIL alla fine, controvoglia, si è espressa per un sì molto stiracchiato.

Si potrebbe allora pensare di votare no. Chi vota no, però, deve ingoiare due rospi: primo, rischiare di venire strumentalizzato e di essere arruolato nelle fila di chi si è battuto con violenza contro l’intero articolo 18; secondo, a livello di principio, votare contro un diritto dei lavoratori.

Altra possibilità: andare a votare e lasciare la scheda bianca, oppure annullarla. In questo caso, prima di tutto si eserciterebbe il diritto di voto, in pace con chi sostiene che quando i diritti ci sono sia meglio avvalersene per non correre il rischio che qualcuno li ritenga superflui; secondo, si contribuirebbe al raggiungimento del quorum.

C’è poi l’ultima scelta, non andare a votare, che è poi l’indicazione espressa da Sergio Cofferati. Tale scelta gli farà perdere consensi, ma la sua persona, a mio vedere, ne esce rafforzata in credibilità, coerenza e onestà intellettuale.