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Tre secoli di scuola

Popolazione e istruzione dell’obbligo in una regione alpina, secc. XVIII-XX Archivio Trentino, 2001, n. 2. Museo Storico in Trento, pp. 335, euro 18.20. Dalle maestre obbligate al celibato alla secolarizzazione, lo scontro nella scuola trentina tra Stato e Chiesa, modernizzazione e conservazione.

Il bisogno di studiare la storia, anche delle età più lontane, nasce sempre da un problema presente. Sta nell’oggi la motivazione a capire il passato, non perché nel passato stia la soluzione ai nostri problemi, ma perché, studiando come allora sono andate le cose, la nostra mente si forma per affrontare con maggiore intelligenza e sensibilità anche le questioni più attuali.

Quinto Antonelli ha già coordinato un volume di saggi, "Per una storia della scuola elementare trentina" (QT n. 5, 1999), edito nel 1998 dal Comune di Trento, come contributo propedeutico ad una storia complessiva della scuola. Anche "Popolazione e istruzione dell’obbligo in una regione dell’area alpina, secc. XVIII-XX", recentemente pubblicato dal Museo Storico, è costituito di saggi fra loro indipendenti, e riguardanti però la più ampia storia scolastica regionale, trentina e tirolese.

La prima sezione, "Storia politica e storie scolastiche", va dalla riforma del 1774, introdotta dall’imperatrice d’Austria Maria Teresa, al primo Statuto di autonomia regionale approvato nel 1948 con Legge costituzionale della Repubblica. La seconda, "Scuole", propone alcune ricerche locali, dalla formazione delle maestre alle scuole rurali in Vallarsa. La terza è dedicata a "Le letture degli scolari" in epoca illuminista e fascista. L’ultima raccoglie "Testimonianze, fonti, archivi".

Il volume è ponderoso, ma non è ancora quella "storia della scuola" di cui avremmo bisogno. Quinto Antonelli, anzi, si dichiara piuttosto scettico: quanto più le ricerche specifiche, e le tesi di laurea, crescono di numero, tanto più il progetto complessivo si allontana, come un miraggio.

Siamo quindi condannati a districarci con minore intelligenza nei problemi di oggi, che ogni "crisi" e ogni "riforma" ci gettano, spinosi, fra i piedi? Quelle scolastiche sono riforme difficili, suscitano discussioni, pressioni, resistenze, a livello locale, nazionale, europeo. Tuttavia i saggi che compongono l’opera, per quanto privi di un disegno unitario, forniscono utili spunti di riflessione. Furono difficili anche in passato le riforme scolastiche, perché la scuola è un "crocevia" in cui s’incontrano, e scontrano, progetti politici ed educativi diversi, e perché a scuola operano soggetti plurali per età, genere, ideologia.

Fra i nodi della storia passata, ancora attuali per noi, incominciamo dal rapporto fra lo Stato e la Chiesa, fra regnum e sacerdotium. Nell’età moderna, dalla fine del Settecento, il secolo pedagogico, l’istruzione diventa gradualmente materia di competenza statale: il maestro, formato e pagato dallo Stato, insegna secondo un metodo uniforme, con l’obiettivo di "disciplinare" gli alunni, e farne sudditi fedeli al sovrano. La riforma di Maria Teresa è un aspetto del lungo processo riformatore che tende a riorganizzare anche l’Impero Asburgico in senso assolutistico-illuminato. Gli elementi più importanti riguardano l’obbligo scolastico per tutti i ragazzi tra i sei e i dodici anni, la diffusione graduale della scuola di base, le materie e il metodo di insegnamento. Sembrano soltanto questioni tecniche, organizzative, politiche. Invece s’imbattono nella Chiesa, la potenza che detiene la verità, il controllo delle anime e delle menti.

Nei secoli dell’antico regime, "prima dello Stato", infatti, le scuole erano sorte per iniziativa della comunità parrocchiale, erano gestite dal sacerdote-maestro, che insegnava a leggere e a scrivere, con l’obiettivo principale di insegnare la dottrina cristiana, come predisposto dal Concilio di Trento.

La laicizzazione introdotta da Maria Teresa, e da suo figlio Giuseppe II, benché lasci ampi spazi alla Chiesa, è vissuta perciò come ingerenza, e suscita proteste nelle comunità locali e nelle famiglie, per il timore che i metodi e i libri nuovi distruggano la fede cattolica.

La tempesta rivoluzionaria e napoleonica coinvolge anche il Tirolo. Il Principato vescovile di Trento è soppresso nel 1802, arrivano i francesi, i bavaresi, gli italiani. Con la Restaurazione dell’assolutismo nel 1815, e soprattutto con il Concordato del 1855, il Regolamento scolastico ristabilisce il carattere autoritario e confessionale dell’istituzione scolastica: per gli scolari sono obbligatorie la Messa quotidiana, la confessione e la comunione nelle feste principali; il rilascio dell’attestato scolastico è subordinato alla conoscenza del catechismo, le sovvenzioni ai poveri alla frequenza della "dottrina". Dirigere l’insegnamento, scegliere gli insegnanti e gli ispettori, è compito esclusivo dei vescovi.

Ma anche nell’Impero austro-ungarico arriva l’ora della borghesia liberale: diritti civili, parità religiosa ed istruzione sono i pilastri della nuova politica. Lo scontro tra il partito liberale (o centralista, costituzionale) e quello conservatore (o federalista, clericale) è furibondo. Il Kulturkampf in Tirolo (1867-1892) è raccontato nelle sue fasi da Christoph H. Hartungen. Contro le nuove leggi, liberali, ci sono mobilitazioni di massa, con incidenti, multe, processi, a carico di chi si oppone, soprattutto nell’area tedesca. In quella italiana la resistenza è più blanda, sia perché i conservatori sono meno forti, sia perché la questione nazionale influenza anche quella scolastica. La soluzione è trovata nella legge del 1892 che riconosce anche in Tirolo, de jure, il carattere pubblico e statale dell’istruzione, ma concede, de facto, ampio potere alla maggioranza locale, cioè ai clericali. Le maestre, tanto per dire, sono costrette al celibato.

Afavore della laicità dello Stato, e della scuola, si batteranno, dall’opposizione, a cavallo fra ‘800 e ‘900, i socialisti. E’ il loro quotidiano, Il Popolo, diretto da Cesare Battisti, a chiedere da Trento una riforma della legislazione scolastica, che conceda alle maestre il diritto di sposarsi, che equipari il loro stipendio a quello dei colleghi maschi, che permetta loro l’abbigliamento che preferiscono. La polemica con il periodico cattolico Fede e Lavoro è aspra. Se da una parte si scrive: "Lasciar cadere un istituto in mani di preti è lo stesso che condannarlo alla rovina", dall’altra ai "compagni" si replica così: "Questi alla pedagogia saprebbero subito sostituire la dolce conversazione, al catechismo i trattenimenti famigliari con le signorine, alla divozione alla Madonna il culto a Venere, ai nobili affetti il libero amore."

Piera Greifenberg cita, da Il Popolo, anche l’articolo di Ernesta Bittanti Battisti che racconta di allieve istruite presso gli istituti religiosi, e che poi si presentano, raccomandate, all’esame di maturità magistrale come privatiste: " Eh, si sa! Con queste contadine, specie se presentate da monache, gli esaminatori sono di manica larga: esse sono poi maestre docili nei villaggi e facili a dirigersi".

Il secondo nodo che, intrecciato con il precedente, attraversa i vari saggi, è il rapporto fra il centro e la periferia, fra lo Stato e le comunità locali, quello che oggi chiamiamo "autonomia", o "federalismo". Nel Tirolo sono state per prime le comunità parrocchiali, la Volkskirche, a domandare, e a organizzare, l’istruzione, ovviamente avvolta in un guscio familistico e confessionale. Quando poi intervenne lo Stato centrale, la riforma illuministica apparve controllo e soffocamento, mentre a noi appare impulso modernizzante. Così, se l’autonomia delle comunità locali fu creatività e responsabilità, conteneva anche il rischio di chiusura localistica e disgregatrice.

Al fondo di questa tensione, se ci pensiamo, fra Vienna, e Roma, da una parte, Innsbruck, Trento, Bressanone, Bolzano, e le loro vallate dall’altra, c’è sempre il rapporto tra l’"eguaglianza" e la "diversità", fra l’unità e il pluralismo, un’antinomia di cui non potremo mai liberarci. Nella scuola di massa dei nostri giorni, trentina e sudtirolese, italiana ed europea, inoltre, arrivano bambini e giovani provenienti da altri paesi e da altre culture, e quindi il problema cresce in complessità.

L’obbligo scolastico per i bambini e le bambine dai sei ai dodici anni, con la riforma di Maria Teresa, è imposto dallo Stato centrale, cioè dall’alto, da fuori. L’opposizione al provvedimento, di cui si fa interprete la Chiesa, viene sia dai ceti popolari sia da quelli benestanti. Giovanni Marchetti, direttore della Scuola normale di Rovereto, spiega l’evasione dall’obbligo con "vindimie, ed altri divertimenti dell’Autunno che affascinano l’animo, ed il cuore dei fanciulli", mentre Clementino Vannetti parla di "molti benestanti che non hanno piacere che i loro figli conversino colla rozza turba, che compone quelle scuole, e credono che possano essere istrutti privatamente in minor tempo, e in modo che non apprendano maniere sconcie e vili".

In realtà l’obbligatorietà e la gratuità, nota Quinto Antonelli, sono problemi fin d’allora di difficile soluzione. Che poi ogni bambino, in quella scuola dell’autonomia, porti il suo legno ("le stele") per riscaldare l’aula, certo ci commuove ancora.

La tensione fra centro e periferia, fra Vienna e il Tirolo, riesplode nell’800, con il Kulturkampf, il modo, già visto, con cui il conflitto fra Stato e Chiesa incrocia lo studium, cioè la scuola. In Trentino, negli stessi anni, gli ispettori centrali controllano i libri di testo, e le carte geografiche, affinché, per l’insegnamento della storia e della geografia, non siano utilizzati materiali stampati in Italia. E’ in questo caso la "questione nazionale" che interferisce con quella scolastica.

Come lo Stato centrale fascista, e la sua scuola riformata da Giovanni Gentile, entri in tensione con le province annesse all’Italia nel 1919, e tenda a soffocare i loro regolamenti autonomistici, si vede nella testimonianza di Luigi Molina, Provveditore a Trento dal 1923 al 1944. Altro momento delicato, dopo la caduta del fascismo che aveva imposto l’italianizzazione forzata del sistema educativo, è la rinascita, narrata da Rainer Seberich, sia delle scuole di lingua tedesca sia di quelle ladine, in cui un ruolo importante ha il viceprovveditore, il sacerdote antinazista Josef Ferrari. I passaggi sono entrambi difficili, ma la differenza fra un regime totalitario e uno democratico è evidente nei risultati.

Un’esperienza interessante è quella di Der kleine Postillon, un periodico per ragazzi, pubblicato in Alto Adige dalla casa editrice cattolica Tyrolia, dal 1924 al 1941. Ne è anima una donna straordinaria, Maria Nicolussi, che attraverso Il piccolo Postiglione intendereagire all’esclusione della lingua tedesca dalla scuola, e dare così ai bambini la possibilità di leggere e usare la lingua materna. Utilizzato nelle "scuole clandestine", raggiunge le 6.000 copie, divenendo l’anti-"Balilla dell’Alto Adige". Le autorità italiane lo ostacolano in ogni modo (in quanto "tedeschizzatore dei fanciulli", secondo l’espressione del senatore Ettore Tolomei), ma riesce a sopravvivere in virtù dei Patti Lateranensi.

Protagonisti della scuola sono gli insegnanti, dai maestrisacerdoti delle comunità di paese del ‘600, ai docenti formati nelle università dei nostri giorni. Protagonisti, e vittime: perché la scuola, ovviamente, non appartiene agli insegnanti. La scuola, nella storia, è investita dalla Chiesa, dalla Politica, dall’Economia, di progetti educativi spesso in tensione fra loro, di cui gli insegnanti sono chiamati a divenire gli esecutori. La dialettica fra regnum, sacerdotium, studium, è spesso aspra. Gli insegnanti vi partecipano attivamente, "eguali" fra loro, in quanto dotati di una specifica professionalità che li unisce, ma anche "diversi", per genere, per ideologia politica, per fede religiosa.

La Chiesa ha una "verità" da difendere, mentre lo Stato moderno, gradualmente, rinuncia alla verità, per garantire ai sudditi-cittadini la "pace", la convivenza fra religioni diverse. Il conflitto fra sacerdotium e regnum è la tensione fra unità e pluralismo, e gli insegnanti ne subiscono i contraccolpi. Ma si schierano anche, e si dividono al loro interno. Da intellettuali molecolari fanno sì che lo studium contribuisca ad accelerare, o a frenare, la storia, a farle prendere una direzione piuttosto che un’altra. Introducono il dissenso, e il dibattito, dentro la politica e dentro la religione.

Rivendicare il diritto a sposarsi fu, per le maestre dell’800, contribuire all’affermarsi della laicità, della tolleranza, del rispetto delle diversità. Oggi, nella nostra scuola, italiana e regionale, del secolo XXI, l’educare a questi valori rimane un compito importante per gli insegnanti. Per quelli fra loro che sono credenti in un Dio, il problema diventa come vivere la fede in una società secolarizzata. Per tutti, credenti e non credenti, come dialogare con fedi e culture diverse, per valorizzare le identità, e neutralizzare le tentazioni, sempre insorgenti, al fondamentalismo.

Gli insegnanti sperimentano, fra i primi, una seconda tensione, l’essere contemporaneamente maestri radicati nella piccola comunità locale, ed aperti sull’impero, e sulla nazione, più grandi. Essi insegnano ad amare le proprie radici, ma anche a mescolarle, a sradicarle, a trapiantarle altrove. Sono insieme tirolesi, trentini, italiani, cittadini dell’impero e del mondo. Camminano sul filo del rasoio, fra l’"identità" da difendere e l’"universalità" a cui educare, fra la trasmissione di una cultura già data e l’apertura all’innovazione. E’ una professione attraversata da antinomie quella dell’insegnamento.

Il senso, e la passione, dell’autonomia , nella storia, ci ha esposti a rischi e ha prodotto risultati apprezzabili. Oggi, nella scuola, in Italia, con il governo di centro-destra di Silvio Berlusconi e di Letizia Moratti, torna a spirare un vento pericoloso, perché carico, a questo proposito, di seduzioni. Saprà la scuola di questa regione, delle sue province autonome, proprio facendo tesoro dei momenti migliori della sua storia, arginare le spinte disgregatrici, privatistiche, confessionali? Il compito degli insegnanti si preannuncia gravoso.

Ma proprio perché la scuola non appartiene agli insegnanti, è nelle mani della società tutta intera, della classe dirigente che in questa terra sa esprimere, il corretto rapporto fra lo Stato e la Chiesa (anzi, ormai, le religioni), fra le autonomie locali e lo Stato nazionale (anzi, ormai, l’Unione europea). Se gli insegnanti sono chiamati a rinnovare, da cittadini, il loro sguardo sulla società e sulla politica, l’opinione pubblica deve guardare con occhi più attenti agli insegnanti, la "corporazione" a cui, nelle società industriali avanzate, è affidata la cura dei cuccioli in crescita.

E’ una professione attraversatada antinomie quella dell’insegnante, della quale, dall’esterno, più facilmente si vedono i limiti che le qualità. La società fatica a concedere agli insegnanti quel riconoscimento economico, sociale, culturale al quale essi sentono di avere diritto.

Per tutta la storia, da Maria Teresa, da quanto benignamente l’imperatrice concede, fino ai contratti sindacali di oggi, nazionali e provinciali, gli insegnanti si lamentano, divisi in cento sigle, di essere pagati poco per il lavoro che fanno. Le donne sono a lungo pagate meno degli uomini, ma questi ultimi giustificano il divario perché solo essi hanno una famiglia da mantenere. Inoltre, se l’insegnamento è una "missione", nemmeno tutte le donne considerano il celibato obbligatorio un’ingiustizia contro cui battersi.

Il dibattito cresce, si articola e si specializza, fino allo "stato giuridico" e al "codice deontologico", alle polemiche sull’immissione in ruolo degli insegnanti di religione e delle scuole private, alla gestione delle 40 ore del contratto integrativo della Provincia. A carico degli insegnanti, Stato e Chiesa, Nazione e Autonomia, rimangono temi vivi anche nel XXI secolo.

L’ultimo saggio, di Quinto Antonelli, è un percorso dentro le fonti narrative, alla ricerca di come gli insegnanti si vivono, e di come la società se li rappresenta. Particolarmente efficace, nella sua crudezza, è la definizione che dell’insegnante viene data ne I mandarini calvi (1978) di Sebastiano Addamo: "Una faccia da niente".

Tuttavia questa descrizione, aspra fino a distruggerne la persona, forse non vale solo per l’insegnante. E’ l’individuo (post) moderno, in quanto tale, ad essere stretto fra atomismo e massificazione, fra solitudine e conformismo, fra narcisismo e apoliticità. L’insegnante soffre della patologia in modo più acuto, perché la sua professione lo scaraventa, ogni giorno, in una "relazione" con altri. Ma l’averne consapevolezza è già terapia.

Io però posso dire, alla fine (della lettura, e ormai, quasi, anche della carriera), che il vedere un ragazzo che cresce, anche per opera tua, e il sentire una parola di stima da un collega che apprezzi, ti permette di resistere negli anni, fin quando non hai più i capelli. Questo, almeno, è il debole parere del recensore.