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La fabbrica di caramelle

Ultima puntata della “Lettera dai Balcani”: le conseguenze della guerra e della dissoluzione del Paese sulla struttura produttiva.

Le caramelle di gelatina scorrono su di un nastro trasportatore. Vengono messe in una fila ordinata dalle mani di alcune operaie in camice bianco, e poi il macchinario le sigilla in una busta di plastica colorata. Nela, vicedirettrice della Stark, ci accompagna nel locale successivo dove in enormi pentole a pressione si cuoce il succo che poi si consoliderà in gelatina. Continuiamo il giro per un quarto d’ora. In un altro stanzone una trentina di operaie confezionano a mano scatole di gelatine. Ciascuna al suo tavolino, un mucchio di caramelle colorate di fronte, le scatole da riempire a sinistra, quelle piene sulla destra. Infine un’operaia pone il sigillo con la scadenza.

Una panoramica di Berane.

Sono circa 200 i lavoratori di quest’impresa. Quasi tutti di Andrijevica, cittadina alle cui porte sorge la fabbrica, solo i dirigenti vengono da fuori, alcuni da Berane, altri, come il direttore, da impieghi precedenti in altre ditte statali nella ex-Jugoslavia. "Ho vissuto 15 anni a Pec, in Kosovo, lavoravo nella birreria. Mi sono trasferito ad Andrjevica verso la fine degli anni ’80 ma in Kosovo mi è rimasta una casa. Potrebbe andare a vedere in che condizioni si trova?" - mi chiede il direttore.

La Stark è un impresa pubblica. "Dello Stato di Andrijevica" - dice il direttore ironizzando sul caos che regna all’interno delle imprese pubbliche. Il termine pubblico o statale solleva più e più ambiguità: ci si riferisce allo Stato montenegrino o alla Federazione? A volte il controllo dell’impresa è direttamente della municipalità all’interno della quale sorge.

La Stark è solo una filiale di un complesso più grande, con sede a Belgrado. Qui ad Andrijevica vengono esclusivamente prodotte e confezionate le gelatine. Il tutto viene poi inviato a Belgrado da dove si commercializza. "Raramente all’estero - ci dice Nela - qualcosa in Grecia e Bulgaria ma poco rispetto al passato". Questo cordone ombelicale che lega la Stark alla capitale ancora non è stato reciso dal sorgere di nuovi confini, anche se il futuro è incerto. Si rischia il destino di molte altre imprese statali della ex-Jugoslavia pensate per una produzione che coprisse l’intero territorio jugoslavo, e forse qualcosa in più, ed inserite in una filiera su scala nazionale. Parte della produzione ad esempio a Skopje, in Macedonia, poi un’ulteriore lavorazione a Prijedor in Bosnia ed infine tutto commercializzato a Zagabria.

Ogni Stato sorto dalla tragica disgregazione della ex-Jugoslavia si è così trovato in mano un pezzetto inservibile di questa catena produttiva. Inservibile anche perché i macchinari erano ormai troppo vecchi (invecchiati ancor più dagli anni di guerra ed inattività), la mole degli impianti caratterizzati da un gigantismo ecologicamente criminale, l’organizzazione dell’impresa spesso noncurante della copertura dei costi.

"Spazio certo non ce ne manca - continua Nela indicando dalla finestra del suo ufficio il capannone che si estende in tutta la sua lunghezza - Il terreno sul quale sorgono le strutture della fabbrica è lungo per lo meno due chilometri e largo quasi uno". Attende un attimo e porgendoci un foglio aggiunge: "Peccato che la produzione sia ridotta ad 1/5 delle nostre possibilità. Siamo stati costretti anche a ridurre la varietà della produzione"; sul foglio una lista di prodotti, confetti, gelatine, chewing gum, e solo al fianco di tre di questi i quantitativi della produzione mensile scritti in pennarello nero. Le righe restanti rimangono vuote. E così fermi rimangono molti dei macchinari che Nela ci aveva mostrato.

Scorgiamo alcuni operai che si tolgono il camice e si preparano ad uscire. Dai grandi locali destinati alla produzione si passa a corridoi scarni che sembrano appartenere ad una vecchia scuola abbandonata da anni dagli schiamazzi degli studenti. "Oggi è il funerale di un dipendente; - spiega Nela - è tradizione che almeno parte del personale venga autorizzata a prendere parte alla cerimonia e così questo pomeriggio per qualche ora sospenderemo la produzione" e ci fa capire che per la dirigenza è quasi meglio, dato che in questo periodo le materie prime tardano ad arrivare dalla Serbia.

Nela ci accompagna fino all’entrata, poi attraversiamo il cortile e ci viene incontro un anziano. E’ l’unico che non porta qui dentro il camice bianco ma una sorta di divisa blu. Ha un passo invecchiato e un po’ contorto ma risoluto. Alla cintola una piccola pistola. E’ uno dei tre guardiani che si dividono il gabbiotto all’entrata. Il nostro passaggio interrompe per un attimo le loro chiacchiere, gli occhi rivolti a noi e non più a caffè e sigaretta. Ci salutano e ci lasciano fuori, su di un piazzale quasi senza macchine. La maggior parte dei duecento operai al lavoro ci arriva a piedi o in autobus. Così diverso dalle nostre file ai semafori all’uscita dalle fabbriche.