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Sindaci sotto tiro

“Avviso Pubblico”: un’associazione nata dopo gli anni di Mani Pulite e delle stragi per condividere le buone pratiche attuate da tanti amministratori locali nella lotta alla mafia e alla corruzione e per non lasciar soli i più esposti. Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Pierpaolo Romani

Avviso Pubblico è un’associazione di enti locali e associazioni nata nel 1996 per unire gli amministratori locali impegnati nel contrasto a mafie e corruzione. La cosa curiosa è che l’idea non è nata al Sud, bensì in Emilia Romagna, dalla volontà di un giovane sindaco di Savignano sul Panaro (Modena), Massimo Calzolari, che organizzò dei momenti di riflessione invitando giudici, magistrati, ecc. Parliamo di anni terribili: nel ‘92 era scoppiata Mani Pulite, erano poi seguite le stragi di Capaci e via d’Amelio, nel ‘93 le bombe di Firenze, Roma e Milano.

Se i mafiosi sono forti è perché sono organizzati, di qui la necessità di fare altrettanto e quindi di diffondere buone pratiche, fare formazione agli amministratori e al personale, e soprattutto non lasciare solo chi è più esposto. Oggi Avviso Pubblico conta 400 enti soci, tra cui 10 regioni, una Provincia (Trento), capoluoghi di città come Torino, Milano, Bologna, Bari, e delle Unioni di Comuni. L’associazione è cresciuta anche perché, nonostante i successi (sono stati arrestati i capi dei Casalesi e Corleonesi), nel frattempo si è fatta strada una mafia sempre più imprenditoriale che si è spostata al centro-nord.

Purtroppo, accanto a un problema di criminalità, c’è anche un problema di rabbia sociale e sfiducia verso la politica, alimentata da una vulgata per cui i politici sono tutti uguali: ignoranti, ladri, interessati solo ai propri privilegi.

Gli amministratori sotto tiro sono sindaci, o assessori, o consiglieri: gli incendiano la macchina, sparano alle loro case, mandano lettere con dentro dei proiettili. Negli ultimi tempi sono aumentate anche le aggressioni fisiche. Perché le minacce? O perché si rifiutano di legittimare degli interessi criminali, o perché cominciano a mettere ordine e trasparenza dove non c’era. Faccio un esempio. Al Comune di Molfetta, tempo fa, hanno cominciato a controllare gli elenchi di chi riceveva sussidi, scoprendo famiglie che non ne avevano alcun diritto: l’indennità era frutto di un voto di scambio con politici locali. Nel corso di quell’operazione di pulizia, il Comune si è visto assediato: è dovuta arrivare la polizia da Bari e si è dovuta mettere una vigilanza privata davanti all’assessorato alle Politiche sociali. Quindi si è sotto tiro non solo perché ci si oppone alla criminalità organizzata, ma anche perché si vuole amministrare in nome del bene comune, combattendo dei privilegi.

Un altro problema è che, a fronte di una perdita di consenso delle istituzioni e dei partiti, si rileva una crescita dell’economia sommersa e criminale e quindi di un crescente consenso verso il mondo illegale. Accanto a chi ha un disegno criminale, si allarga un tessuto di illegalità. Nel corso di un’indagine della Procura di Venezia, si è scoperto che un gruppo di criminali collegati ai Casalesi aveva comprato una finanziaria a Padova che faceva concessione e recupero crediti, evidentemente fatto con le cattive maniere, ma c’erano imprenditori che chiedevano proprio questo servizio. Questo è un punto importante: la criminalità organizzata, per un pezzo di mondo imprenditoriale e finanziario, oggi è soprattutto un service. Quando il PM ha chiesto al capo di quel gruppo criminale perché avessero scelto il Veneto per operare, la risposta è stata: “Siamo venuti qui perché c’è tanta gente che non vuole pagare le tasse. E noi abbiamo il know how per aiutarli”. Avevano infatti una rete di notai, commercialisti, avvocati e quant’altro. Gli amministratori locali devono misurarsi con un tessuto sociale che guarda all’illegalità per connivenza, ma anche per bisogno.

La commissione di inchiesta al Senato su questo fenomeno ci ha coinvolto nel team di consulenti. Abbiamo dunque dato un contributo per una proposta di legge che modificasse un articolo del codice penale, il 338: “Violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario”; sono state alzate le pene, il che ha permesso di usare strumenti che prima non avevano, come le intercettazioni.

Il mafioso antimafia

I dati sono impressionanti. Il primo anno abbiamo registrato 212 intimidazioni, divenute 479 nel nostro ultimo rapporto annuale. Sicuramente siamo diventati più bravi a cercare le notizie e ce le segnalano di più, ma sono numeri preoccupanti.

Il gioco d’azzardo è un ulteriore tema. Ma parliamo sempre di impresa: io vado nei territori, compro delle sale o dei bar e ci metto delle macchinette; poi compro anche le aziende che le producono. Poi quelle macchinette le tarocco per evadere il fisco. Quindi comincio a fare le estorsioni; non ti chiedo dei soldi, ma ti dico: “Lo zucchero per il caffè lo compri da me, il latte pure...”. Se sei una pizzeria: “La mozzarella e il pomodoro li compri da me”.

Le mafie oggi sono questo. La violenza è l’extrema ratio cui ricorrono quando l’intimidazione, l’estorsione o la corruzione non hanno sortito effetto. Prevalgono le altre strade. Insomma, bisogna fare attenzione, perché quando i mafiosi non sparano può voler dire che stanno riuscendo comunque a fare quel che vogliono. Oggi la mafia non spara quasi più, se non per dei regolamenti di conti. La mafia è soprattutto impresa. I mafiosi mandano i figli a studiare in posti prestigiosi affinché si specializzino nel settore economico-finanziario e giuridico. È il principio del “make or buy”, o lo faccio in casa o lo compro sul mercato. Se ho il servizio in casa salvaguardo un pilastro del potere mafioso, la segretezza.

Come riconosciamo oggi le mafie? Cosa deve fare un amministratore? Intanto va monitorata la qualità e quantità dei capitali e investimenti che arrivano, il passaggio di licenze commerciali, la gestione dei rifiuti, se qualcuno si offre di sponsorizzare campagne elettorali, anche le residenze… Alcuni scioglimenti di consigli comunali ci fanno capire che se il Comune avesse guardato a chi era venuto ad abitare nel suo territorio nei 5 anni precedenti, si sarebbe accorto che da una certa zona della Calabria era arrivato un certo numero di cittadini e che alle successive elezioni c’erano stati spostamenti di voto sospetti.

Quando Avviso Pubblico è nato, la maggioranza degli enti che avevano aderito era nel Sud perché l’impatto delle stragi era stato forte. Inoltre, Tangentopoli aveva spazzato via un’intera classe dirigente. Erano quindi arrivati, magari da esperienze professionali, nuovi amministratori che posero al centro dell’agenda il tema della legalità. Negli anni Duemila abbiamo assistito a una trasformazione: anche al nord sono scoppiate le grandi inchieste, che hanno rivelato la presenza delle mafie nell’economia. Gli amministratori sono quindi corsi ai ripari. Oggi abbiamo più associati nel centro-nord: le prime tre regioni sono Lombardia, Emilia Romagna e Veneto.

Abbiamo dei coordinatori territoriali, regionali e provinciali, inoltre abbiamo avviato un rapporto con le prefetture, le questure e le procure. Incontriamo i rappresentanti delle forze dell’ordine, per far sapere che esistiamo, che nel loro territorio ci sono sindaci che hanno deciso di non girarsi dall’altra parte di fronte ai problemi. Una cosa che il movimento antimafia non deve dimenticare, è che i mafiosi a volte si presentano come antimafia. Quando è uscita la legge sulla gestione dei beni confiscati, sono subito sorte false cooperative sociali. Ci sono intercettazioni in cui i mafiosi esortavano: “Mi raccomando, entra nell’associazione antiracket”.

Non dimentichiamo che i mafiosi lavorano per avere consenso. Che può essere cercato attraverso l’intimidazione o concedendo privilegi. Lo Stato non ti dà lavoro? Te lo do io. La giustizia non funziona? Ci penso io a farti da tribunale. Per recuperare un credito ci metti tre anni? Io provvedo in tre giorni. Smaltire i rifiuti è complicato? Te lo faccio io. Hai bisogno di sicurezza nei cantieri o nei locali da ballo? Ci penso io coi miei bodyguard, che casomai portano pure la droga.

Il prof. Enzo Ciconte nel suo libro “Storia criminale”, spiega che la mafia è un Giano bifronte, con una faccia verso il popolo e una verso le classi dirigenti. La forza della mafia è di porsi nel mezzo, dando qualcosa agli uni e agli altri.

La politica ha un ruolo fondamentale. Un sindaco che dice un sì o un no è la prima barriera. Un sindaco minacciato, se oltre a essere appoggiato dai suoi familiari, è sostenuto dalle scuole che vanno a trovarlo in Comune, dai cittadini che partecipano ai consigli comunali e denunciano le cose che non vanno... ecco, tutto ciò crea un tessuto connettivo importante per promuovere non solo la cultura della legalità, ma soprattutto una cultura di giustizia e di uguaglianza.

Le confische

Pio La Torre e Cesare Terranova, a metà anni ‘70, sostenevano che la sconfitta delle mafie passa per l’attacco alle ricchezze economiche. I beni confiscati non sono beni come gli altri. Bisogna riappropriarsi di questi luoghi-simbolo e restituirli alla collettività. Hai comprato un bene con azioni che hanno negato i diritti o addirittura togliendo la vita a qualcuno? Bene, io te lo prendo e lo ridò alla società. L’80% dei beni confiscati viene assegnato ai Comuni, che li danno a cooperative, associazioni, o li tengono per fini istituzionali. Questo è possibile dal ‘96 grazie alla legge 109. All’epoca, Libera, nata un anno prima, propose una petizione popolare: raccolse un milione di firme e riuscì a far passare la legge. Ovviamente, emersero delle difficoltà. Serviva un coordinamento, perché i beni confiscati possono essere tante cose: il garage, la villa, l’azienda... E poi questi beni iniziano a essere tanti: serve una struttura e personale specializzato, e su questo c’è ancora da lavorare.

Per un’amministrazione prendere in carico un bene confiscato può rivelarsi un guaio e a volte le rogne partono già dallo sgombero. A Corleone il sindaco, Nino Iannazzo, un giorno si presentò da Simone Provenzano, fratello di Bernardo, assieme a due vigili urbani, col decreto di confisca. Disse: “Signor Provenzano, qua c’è un decreto di confisca, lei deve lasciare la casa. Le do del tempo, lei si organizza e si sposta”. Lui era uno del posto, conosceva le dinamiche, e soprattutto era un uomo coraggioso. Ma non ha avuto alcun sostegno. Non a caso tanti sindaci fingono che non ci siano i beni! D’altronde spesso i mafiosi, prima di mollare il bene, lo distruggono e se vuoi rimetterlo in sesto dove trovi i soldi?

Ma il vero problema sono le aziende. Finché l’azienda la controlla il mafioso, ottiene crediti, fidi bancari, tutto. Il giorno in cui arriva il decreto di sequestro, le banche chiedono immediatamente il rientro dei fidi, le assicurazioni staccano le coperture... Il nuovo codice è importante perché dice: abbiamo cento aziende, quante sono capaci di stare sul mercato? Cinquanta. Bene, le altre si chiudono, ovviamente cercando di distinguere i lavoratori onesti da quelli che erano lì per altri scopi. Dopodiché, dobbiamo far sì che le aziende buone stiano sul mercato. Non può passare il principio che con la mafia si lavora e con lo Stato si resta disoccupati!

* * *

Pierpaolo Romani, giornalista e ricercatore, è stato consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli amministratori locali minacciati e della Commissione parlamentare antimafia. Vive a Verona.

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