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Perché il razzismo italiano

Mussolini era antisemita, ma per 15 anni lasciò in pace gli ebrei: perché all’improvviso le leggi razziali? Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Marie-Anne Matard Bonucci (a cura di Gianni Saporetti)

Una delle questioni principali alla base del mio libro “L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei” (Il Mulino, 2008) riguarda il perché, dopo 15 anni di potere, il fascismo decise di perseguitare gli ebrei e perché tale decisione si sia potuta mettere in pratica così rapidamente.

In Italia la tradizione di antisemitismo sociale e politico, a differenza di paesi come la Francia, la Germania o la Russia, era abbastanza debole. Anche perché il conflitto tra Stato e Chiesa aveva in qualche modo ostacolato la trasformazione dell’antisemitismo cattolico in antisemitismo politico così com’era avvenuto in Francia o in Austria. Certo, esisteva una tradizione di antisemitismo cattolico, ma era rimasta confinata, appunto, in ambito religioso. Lo riscontriamo anche sul piano culturale: se pure troviamo l’antisemitismo in certi romanzi come quelli di Guido Milanesi o Papini, non c’è nulla di paragonabile a ciò che troviamo in Francia, dove ci sono decine di romanzi antisemiti, dove ci sono una stampa, dei partiti e delle leghe antiebraiche.

Il caso italiano fa riflettere: abbiamo un governo che ha conquistato il potere con la violenza, che è diventato una dittatura totalitaria, che ha quindi la possibilità di fare ciò che decide, e per 15 anni lascia in pace gli ebrei. Non solo, li ammette nel partito fascista. E se guardiamo le cifre, gli ebrei vi sono presenti in una proporzione superiore rispetto ai non ebrei, dato spiegabile con le caratteristiche geografiche e sociologiche dalla comunità ebraica. Non c’è traccia di antisemitismo neanche nella dottrina fascista e nei testi ufficiali, anche se sappiamo che Mussolini era antisemita fin da quando era socialista, secondo una tradizione di antisemitismo sociale esistita in certi movimenti di sinistra, che assimilava gli ebrei ai ricchi, ai banchieri e credeva all’esistenza di una lobby ebraica che avrebbe controllato il mondo. Malgrado ciò, Mussolini aveva deciso di lasciare gli ebrei in pace e non aveva mai fatto dichiarazioni pubbliche di antisemitismo. Perché decide “solo” nel ‘38 di perseguitare gli ebrei? La risposta secondo me va cercata nel contesto.

Nel momento in cui Mussolini decide di adottare le leggi razziali si sviluppa un discorso propagandistico che insiste sul fatto che ci sarebbe una tradizione che porta il fascismo a perseguitare gli ebrei, una presunta continuità tra la politica demografica e le leggi razziali. Il che è chiaramente un argomento inventato a posteriori. In realtà, la politica demografica del fascismo era sempre stata una politica del numero, della volontà di far crescere la nazione, ma senza alcuna connotazione razzista, sino al ‘37-’38 appunto.

L’altro argomento che si adduceva era la continuità con la politica in Etiopia. È vero che ci fu una politica razzista in Etiopia; nell’aprile del ‘37 c’è una legge, in particolare, che vieta il “madamismo”, cioè il fatto che uomini italiani e donne etiopiche possano vivere insieme avendo dei rapporti di tipo coniugale. Ciò sarà presentato dai fascisti come una specie di anticipazione delle leggi razziali, in particolare il divieto dei matrimoni tra ebrei e non ebrei. Ma oggi è appurato che pure in tale ambito, quando la legge del ‘37 è varata, si pensa solo all’Africa e questo tipo di razzismo è di natura diversa dall’antisemitismo. Tra l’altro gli ebrei italiani erano entusiasti della guerra di Etiopia esattamente come i non ebrei: partono volontari, danno l’oro alla patria, per una politica coloniale percepita come analoga a quella delle altre potenze, e niente affatto come l’anticipazione di una politica che avrebbe condotto all’antisemitismo.

Il bisogno di un conflitto

Dunque, per capire la logica delle leggi razziali bisogna riflettere sul contesto nel quale fu presa la decisione, che è, nel 1937, un momento di stasi, di pausa nella dinamica totalitaria del regime: gli antifascisti erano già da anni in esilio o incarcerati, nel partito le lotte di potere sembravano sedate, c’era stata la guerra d’Etiopia, che fu un momento di consenso intorno al fascismo; poi c’era stata la guerra di Spagna, che era sembrata dare un nuovo slancio alla rivoluzione fascista e che invece era stata meno popolare, anche per via della lotta fratricida tra italiani, fascisti e antifascisti.

Il ‘37 è un anno di pausa, e sappiamo che in un regime totalitario l’assenza di conflitti e di lotte politiche è un pericolo. La logica di un regime totalitario richiede sempre del movimento: Jean Bérard, storico francese vissuto in Italia negli anni Trenta, spiegava che il fascismo era un po’ come la bicicletta: se uno non pedala, non va avanti e cade. Ecco, io credo che sia questa la vera logica che spiega il perché delle leggi razziali.

Nel dicembre del ‘37, nella prospettiva di un’uscita dal conflitto spagnolo, Mussolini riflette su quali potrebbero essere i nuovi mezzi per mantenere un clima di tensione. È allora che pronuncia questa frase: “Quando finirà la Spagna, inventerò un’altra cosa. Il carattere degli italiani si deve creare nel combattimento”. Il mio presupposto è dunque che l’antisemitismo fu pensato come un mezzo per rilanciare la macchina totalitaria, come qualcosa per mobilitare le élites e le organizzazioni fasciste in una nuova battaglia.

Sappiamo che la decisione delle leggi razziali fu autonoma, la Germania non esercitò pressione sull’Italia. Eppure, a mio avviso, la Germania un ruolo l’ebbe proprio in quanto Stato totalitario arrivato a realizzare più rapidamente ciò che Mussolini voleva fare in Italia, cioè trasformare la società e creare un uomo nuovo, guerriero. In Mussolini c’era quest’idea di trasformare il carattere degli italiani. Se all’inizio il fascismo fu un modello per la Germania, le cose poco a poco si rovesciarono e furono i fascisti a guardare con attenzione e soggezione a cosa succedeva in Germania. Nel settembre del ‘37 Mussolini fa il famoso viaggio in Germania in cui rimane molto impressionato da ciò che vede, soprattutto dalla disciplina delle folle, della popolazione, e dal quale torna convinto che “un po’ di Prussia non farebbe male agli italiani”.

Nella logica fascista resta questo bisogno di mobilitazione permanente, il bisogno di nuovi nemici. E nel contesto del ‘37 gli unici nemici possibili sono diventati “gli altri”, coloro che costituiscono una minoranza nella nazione, gli ebrei.

Un fatto impressionante, che fa riflettere è che, pur in assenza di una tradizione di antisemitismo sociale e politico, la conversione delle élites dei funzionari all’antisemitismo avviene rapidamente. Questi, pur non credendo che la lobby ebraica esista veramente, o che gli ebrei siano l’incarnazione del male, per semplice obbedienza o conformismo in pochissimo tempo diventano solerti complici dell’antisemitismo di Stato. Nella legislazione c’erano lacune, anche per via della presenza di molti matrimoni misti, e per superarle occorse uno zelo particolare.

Gli ebrei erano integrati molto bene nella società italiana. L’Italia era il paese, in Europa, col più alto numero di matrimoni misti e raramente gli ebrei erano percepiti come gente diversa, come “altri”. Dunque, fu necessario un lavoro intenso di propaganda per instillare questo pregiudizio. Essendo i legami tra ebrei e non ebrei così numerosi e antichi, diventava ancora più crudele trattare come paria gente che era vista come simile. Significava proprio incidere nella carne viva di una società.

Un ventaglio di motivazioni

All’inizio della campagna razziale non esiste una dottrina già stabilita. Il famoso manifesto degli scienziati le darà un’impostazione biologica. Oggi è risaputo che Mussolini è dietro il testo scritto da un giovane antropologo, Guido Landra; lì possiamo dire certamente che la lingua è quella dei nazisti. Ma in un secondo tempo, il manifesto sarà criticato e verranno fuori altre anime del razzismo italiano. Julius Evola propone una specie di razzismo “spirituale”, mentre, se guardiamo bene, è pure impregnato di razzismo biologico. Appare anche un razzismo più nazionale, con l’idea che la razza è un concetto più che altro politico. Infine c’è la corrente volta a collegare il razzismo con la tradizione cattolica, anche se la Chiesa non è favorevole alla campagna razziale.

Fatto sta che se Mussolini non sceglierà mai Evola, è il più vicino alla sua concezione; ma non ci sarà mai da parte del Duce una vera scelta, ci sarà un continuo dibattito. L’importante per Mussolini non è tanto arrivare a una dottrina unica del razzismo, ma suscitare una discussione, con l’obiettivo di rilanciare il processo totalitario del fascismo.

Sulle copertine della rivista “La Difesa della Razza” vengono ripresi tutti i temi dell’antisemitismo, per esempio, si ritrovano stampe di omicidi rituali del ‘6-’700 o vengono riciclate certe rappresentazioni di Giuda che troviamo nei dipinti di Giotto o di altri pittori del Rinascimento. Accanto a questo filone di antisemitismo cattolico, la rivista fa convivere un filone di antisemitismo sociale, con al centro la figura del banchiere ebreo, riprendendo anche i disegni di satira politica dell’Ottocento. Nella dimensione dell’antisemitismo biologico, l’ebreo è invece additato come il controtipo della razza pura italiana raffigurata da diverse statue dell’antichità. La propaganda de “La Difesa della Razza” mischia dunque diverse tradizioni nazionali e molto rapidamente ne crea una sua, italiana, partendo da questi riciclaggi. Lo stereotipo più importante che viene usato è comunque quello dell’ebreo borghese, in quanto controtipo dell’italiano guerriero, del nuovo italiano combattente.

Dopo la Liberazione, sulle leggi razziali è calato il silenzio, quasi a voler rimuovere: quando gli ebrei sono tornati, qualche volta hanno voluto raccontare, ma hanno avuto l’impressione che la gente non volesse ascoltarli, perché presa dalle difficoltà del dopoguerra, o hanno temuto di non essere capiti. Bisognerà aspettare la fine degli anni ‘60 perché la Shoah venga compresa nella sua unicità, in quanto progetto di sterminio molto particolare nell’ambito di tutti i crimini della Seconda guerra mondiale.

Se è molto importante parlare delle leggi razziali, è altrettanto importante ricordare che i crimini del fascismo sono tantissimi. Se il popolo italiano non fosse stato sottomesso da questa dittatura totalitaria gli ebrei non sarebbero stati perseguitati. La soppressione della democrazia è la condizione dell’antisemitismo di Stato. Dunque la lotta contro il razzismo va condotta su due fronti: la lotta contro ogni forma di discriminazione, ma anche, e in primis, la difesa della democrazia.

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Marie-Anne Matard-Bonucci insegna Storia contemporanea all’Università di Grenoble II.