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QT n. 9, settembre 2013 Rubriche: Risiko

I perché di una possibile guerra

L’espansionismo dell’Iran, la Russia e la questione siriana

Quando queste righe saranno pubblicate, forse sapremo già come è andata a finire in Siria o forse no. Ma qui vorremmo cercare di capire un po’ che cosa sta dietro questa smania americana di aggredire il paese di Bashar al-Assad, certo non proprio uno stinco di santo, ma comunque un personaggio che non si discosta dalla media nello scenario dei tanti regimi autoritari del Medio Oriente.

Sono state fatte diverse ipotesi ultimamente sulla vexata quaestio. La versione ufficiale di Obama, che cioè non si può permettere a un dittatore di usare impunemente armi di distruzione di massa, pena il rischio concreto di una proliferazione del loro uso nel mondo, ha forse una sua ratio, ma chiaramente è quello che è: una foglia di fico per nascondere ragioni più prosaiche.

Si è detto che l’America ha bisogno in realtà di battere un pugno sul tavolo, per far capire che in Medio Oriente la sua potenza conta ancora e che nessuno (leggi Russia e Cina) si può illudere che essa non ne farà uso quando, come e nella misura in cui lo ritenga utile ai suoi interessi.

Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che dopo la Siria toccherà all’Iran. E qui certamente si prospetta uno scenario da conflitto mondiale, perché difficilmente Russia e Cina tollererebbero un attacco al paese che di fatto si è posto sotto la loro protezione, almeno da quando Putin ha cominciato a fornirgli tecnologie nucleari.

Con l’ ipotesi iraniana ci avviciniamo al nocciolo della questione, soprattutto se si cerca di capire che cosa comporta, nei rapporti Russia-Iran, la fornitura e l’assistenza tecnica continuativa per la costruzione di centrali nucleari. Di fatto, stante l’attuale embargo occidentale sull’Iran - che ha conseguenze gravissime sul suo commercio internazionale, si pensi soltanto al fatto che non è più possibile neppure fare un bonifico bancario tra Iran e Europa - il legame di dipendenza tecnologica e commerciale del paese degli ayatollah dalla Russia e dal blocco del “Patto di Shangai” si è andato facendo sempre più stretto e massiccio. Il commercio iraniano si è giocoforza ri-orientato verso est, e qui anche l’India gioca un suo ruolo autonomo, non avendo essa aderito all’embargo. L’Iran è divenuto nel frattempo uno dei grandi fornitori di petrolio e gas per la Cina, paese che con uno sviluppo a due cifre ha una fame smodata di fonti energetiche che va a comprare presso tutti gli stati disponibili, ivi compresi gli stati-canaglia, dall’Iran al Venezuela. Ma, cosa di cui poco si parla, l’Iran ha pure contatti a livello tecnico-militare con la Russia; si vocifera per esempio di un accordo segreto di difesa aerea in caso di attacco al paese. In questa situazione di grave difficoltà determinata dall’embargo, l’Iran sta giocando un’altra audacissima carta: si parla da tempo della costruzione di una pipeline tra l’Iran e il Mediterraneo che dovrebbe necessariamente passare per la Siria, e che consentirebbe all’Iran di presentarsi alla grande sul mercato euro-mediterraneo.

Inutile aggiungere che questo progetto è un pugno nell’occhio per i grandi paesi arabi sunniti produttori di petrolio, Arabia Saudita in testa, che vedrebbero così un potente rivale affacciarsi sul ricco mercato europeo a prezzi concorrenziali. L’Europa avrebbe tutto da guadagnare da una più forte concorrenza tra petrolio arabo e petrolio iraniano... ma non pare (volere) avvedersene. Non è un caso che la rivolta siriana al regime di Assad sia ampiamente finanziata dai paesi arabi sunniti.

I quali, inoltre, hanno visto nei decenni trascorsi crescere esponenzialmente l’influenza iraniana e sciita in tutto il Medio Oriente. Qui entriamo forse nel cuore del problema: l’espansionismo, vero o presunto, dell’Iran in direzione del Mediterraneo (nulla di nuovo sotto il sole, se solo ci ricordiamo delle guerre greco-persiane o dell’invasione achemenide dell’Egitto al tempo di Cambise, il successore di Ciro il Grande).

La sciagurata impresa irakena ha consegnato l’Irak a una maggioranza sciita i cui leader hanno stretti legami con il paese degli ayatollah e che ora, con discrezione, sostengono il regime traballante di Assad. Il quale - e qui abbordiamo un ulteriore cruciale aspetto - si regge notoriamente su un blocco che fa perno su una minoranza religiosa, alevita, alleata con i settori cristiani e sunniti moderati del paese. Ora, proprio questa minoranza alevita (il nome etimologicamente significa qualcosa come “veneratori o partigiani di ‘Ali”, il cugino e genero di Maometto) è per noi estremamente interessante. Fino a pochi decenni orsono costoro erano ritenuti eretici, o persino non-musulmani, dagli stessi sciiti; ma l’ayatollah Khomeyni dichiarò pubblicamente che essi costituivano una genuina minoranza sciita e con questo egli ottenne in un sol colpo di ingraziarsi il regime degli Assad e di mettere in grande agitazione la Turchia sunnita, dove - pochi lo ricordano - esiste una grossa minoranza alevita di ben 10 milioni di fedeli. Anche questo bisogna aver presente oggi quando scopriamo che la Turchia di Erdogan finanzia generosamente, al pari degli arabi sunniti, il fronte sunnita dei ribelli anti-Assad.

Ma l’Iran, che fra l’altro viene accusato dagli americani e da Israele di sostenere finanziariamente gli Hezbollah libanesi e Hamas palestinese, si è spinto anche ben oltre il Bosforo. Da anni ha stretto legami con la confraternita sufi filo-sciita dei Bekhtashi - che storicamente dall’Anatolia si era estesa nella Rumelia (i Balcani controllati dai turchi ottomani) - e in particolare ha creato forti legami con i Bekhtashi dell’Albania, che celebrano ogni anno, con particolare ardore di fede la passione e morte di Hossein (figlio di ‘Ali) a Kerbela, uno dei riti fondanti dello sciismo.

Come si vede, “l’arco sciita” teso dall’Iran negli ultimi decenni arriva dall’Irak fino all’Adriatico... e anche qui la Turchia, oggi potenza economica fortemente in ascesa con grandi interessi commerciali nei “suoi” Balcani ex-ottomani, non resterà a guardare.

La Siria fra Iran e Israele

L’elezione a presidente dell’Iran di un moderato come Ruhani potrà cambiare la percezione araba e turca (e israeliana) dell’espansionismo iranico? Non credo. Ruhani, anni fa abile negoziatore nei colloqui sul nucleare con le potenze occidentali, si è dato subito da fare a mitigare la percezione del pericolo iraniano: è notizia recentissima che il suo ministro degli esteri ha clamorosamente smentito il negazionismo dell’ex-presidente Ahmadinejad sull’Olocausto; e il vecchio Rafsanjani, padre politico del nuovo presidente, si è persino spinto sino a ipotizzare che Assad potrebbe effettivamente esser ricorso all’uso delle armi chimiche. È evidente insomma lo sforzo dell’attuale dirigenza dell’Iran di uscire dal cul de sac in cui l’aveva cacciata Ahmadinejad e - grazie a una politica moderata e conciliante -di allontanare dal paese il rischio, concretissimo in questi scenari di guerra sulla Siria, di dover subire un attacco da parte di Israele. Il quale potrebbe ben approfittare di una tutt’altro che improbabile escalation della guerra alla Siria per regolare i conti proprio con l’Iran in cui, indipendentemente da chi sia oggi il presidente, continua a vedere un potenziale nemico. Non tanto rispetto al problema della sua sicurezza - Israele ha un esercito e tecnologie militari che sono avanti anni luce rispetto a quelli di qualsiasi altro paese dell’area - quanto, ancora una volta, come concorrente economico e geo-politico. L’Iran insomma ha saggiamente abbassato i toni e l’era di Ruhani si apre all’insegna del dialogo e della moderazione.

Ma il suo disegno espansionista resta intatto e la nuova fase di moderazione potrebbe anzi solo giovare alla sua “neo-achemenide” politica di grandeur. Questo certamente fa paura a Israele, che potrebbe essere tentato di stoppare l’evidente evoluzione moderata dell’Iran, potenzialmente e nel lungo periodo persino più pericolosa o meglio contraria ai suoi interessi nell’area. Di qui discende il forte tifo israeliano per l’interventismo di Obama: le indagini demoscopiche hanno evidenziato che solo Israele, a differenza di Europa o degli stessi USA, ha una forte maggioranza di opinioni favorevoli alla guerra alla Siria. Brutto segno davvero.

Tornando alla smania aggressiva degli USA, ci si chiederà a questo punto: ma dove sta l’interesse americano a imbarcarsi in una impresa del genere? Oggi solo gli arabi sunniti più Turchia e Israele premono per questa avventura dagli esiti incontrollabili, con un chiaro obiettivo: ridimensionare l’influenza sciita e dell’Iran in particolare, togliendo di mezzo un suo storico alleato e ponte verso il Mediterraneo; l’Europa è titubante e la sua opinione pubblica è fortemente contraria; di Russia e Cina s’è detto; persino gli altri paesi emergenti (India, Brasile, Sudafrica), dopo il vertice di S. Pietroburgo, si sono allineati a Putin, non certo a Obama. Davvero si può fare una guerra solo per dare una lezione a qualcuno o per fare un piacere agli arabi sunniti (e a Israele), o magari solo per far vedere agli altri big del pianeta che l’America quando vuole sa battere il pugno sul tavolo, sa fare la faccia feroce?