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Il velo, la Santanchè e il femminismo che non c’è

Cristina Berlanda

Martedì 18 ottobre è apparsa sul quotidiano L’Adige una lettera firmata da una mia omonima, così mi sento in obbligo di prendere le distanze dalle opinioni espresse dall’altra Cristina Berlanda, che se la prende con le femministe militanti di sinistra che nemmeno una parola hanno speso per solidarizzare con la povera Santanchè, presa di mira e addirittura indicata alla rappresaglia musulmana da un imam di Segrate cui voleva spiegare il Corano.

Daniela Santanchè con Silvio Berlusconi.

Pur ammettendo che la signora in questione non gode della mia simpatia, mi auguro sinceramente che non sia oggetto di nessuna ritorsione, ma vorrei pure che l’imam in questione, avendo dato dell’ignorante alla stessa, non venisse incolpato di istigazione all’omicidio. La legge italiana non ammette che una persona possa andare in giro col volto coperto, e questo lo sanno benissimo anche i musulmani presenti in Italia, dato che tutti possiamo notare che le donne che portano il foulard, lo indossano lasciando scoperto il viso. Dunque, il problema del velo non esiste. Se lo si solleva è, evidententemente, perché lo si vuole strumentalizzare a fini politici. Si cerca, in altre parole di creare una tensione attorno alla comunità islamica e quindi attorno a questo simbolo inquietante del velo che copre, che nasconde, che divide. Così si crea un altro muro che separa la comunità di maggioranza degli italiani dalla sempre più consistente comunità islamica.

Sono convinta che l’uguaglianza fra i sessi non si risolva con una legge sul velo islamico, e che la laicità non si debba imporre dall’alto, attraverso esclusioni e divieti. La libertà femminile non cresce in proporzione diretta o inversa ai centimetri scoperti. La questione è tornata a farsi seria in Europa dopo che la Francia ha votato la legge sulla laicità che potrà impedire a ragazze islamiche velate l’accesso alla scuola. Non è che il problema vada piuttosto ricercato nel fallimento delle politiche di integrazione? Davvero si pensa che valga la pena difendere in questo modo la dignità femminile? Se nelle scuole praticassero l’interculturalità e l’integrazione, la preoccupazione sarebbe quella di sapere se una giovane porta il chador perché lo vuole lei o perché, se non lo mette, il babbo le gonfia la faccia di schiaffi e la chiude in casa.

Una volta espulse dalla scuola, queste ragazze saranno prede più facili per i fondamentalisti, che troverebbero nell’esclusione la conferma delle loro tesi secondo le quali per queste giovani esisterebbe una sola vera comunità, quella dell’islam, dato che la Repubblica Italiana respinge i musulmani. Di questo dovrebbe essere responsabile la scuola pubblica se ci fosse, al suo interno, un buon rapporto docenti/studenti/famiglie. Un provvedimento come quello francese potrebbe essere percepito come provocatorio e forse costerà, a qualche ragazza di famiglia integralista, la prosecuzione degli studi. Se vengono escluse, noi peggioriamo il loro status già precario, i rapporti di comunità non miglioreranno e qualche mecenate musulmano creerà istituti privati islamici, con quale vantaggio per gli aspiranti al dialogo e tolleranza è dato immaginare. Spesso si assiste a una progressiva radicalizzazione culturale e religiosa proprio di quelle famiglie che, vivendo in un ghetto e non usufruendo di nessun programma di integrazione, vanno alla ricerca di un’identità che, a ben vedere, non appartiene neanche alla loro d’origine.

L’emancipazione si ottiene con la conquista dei propri diritti e non può essere imposta con l’umiliazione o la repressione, Perciò, lungi dall’inserirsi nella continuità delle lotte femministe, il divieto di portare il velo a scuola creerebbe una frattura. Gli integralisti sostenitori del divieto ci mettono in guardia contro il buonismo e la cecità di fronte all’azione dei gruppi che si nascondono dietro queste ragazze.

La società che si vuole laica è un bene per tutti: sia tale nel suo autentico valore, di rinuncia dello Stato all’interferenza con la sfera individuale: dove è garantita la democrazia non hanno senso le imposizioni. La laicità deve trovare posto nei programmi di studio, nelle strutture scolastiche e nel personale insegnante, ed agli alunni andrebbe insegnato il rispetto delle regole e anche il rispetto verso gli altri. Scuola laica non significa imporre agli alunni di essere laici ma accogliere gli studenti a prescindere dalla loro religione, senza imporgliene nessuna, dando loro altri piani di condivisione e altri valori comuni.

Le generalizzazioni sono pericolose: non tutti i musulmani dal volto barbuto sono pericolosi integralisti, così come non tutte le studentesse col foulard sulla testa sono militanti integraliste o vittime di integralisti. Al contrario, molti di loro sono ben integrati e contribuiscono con sacrifici al benessere del nostro paese. Ovviamente i rischi di sconfinamento ci potranno sempre essere, ma penso che la via più coerente e fruttuosa sia quella del confronto sul piano delle idee.