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QT n. 18, 28 ottobre 2006 Monitor

“Inanna”: la molteplicità dell’universo femminile.

Dalla divinità sumera della fecondità all'instabilità emotiva femminile, alle nevrosi della donna contemporanea: intenso spettacolo di Carolyn Carson.

Il titolo, anzitutto: “Inanna”, gia di per sé evocativo dello spirito trascendente dello spettacolo presentato a Trento, nell’ambito di “In danza”, dalla celebre coreografa statunitense Carolyn Carlson. Finlandese di origine e francese d’adozione, la Carlson incarna essa stessa una possibile identità della dea dai mille volti a cui si è ispirata per questa creazione. Inanna è la dea sumera della fecondità e della bellezza, legata al tema delle stagioni e della rinascita sotto nuove spoglie, il cui culto ebbe larghissima diffusione presso i popoli del Mediterraneo orientale, dove conobbe varie declinazioni, dalla babilonese Ishtar, alla greca Afrodite, alla romana Venere.

Dopo aver scoperto, grazie alle poesie di una scrittrice sumera, l’esistenza di questa dea rivelatrice della natura umana e dopo averle a sua volta dedicato alcuni versi (“Inanna questa misteriosa energia che organizza tutto quello che è nel cielo, piegando il tempo e lo spazio, volgendo la luce dei nostri occhi, passa e si piega nel riflesso di una luna quasi dipinta…”), Carolyn Carlson l’ha trasformata nel pretesto per una riflessione approfondita e molto sentita sulla condizione della donna contemporanea, di cui tenta di indagare l’indole ambigua, polivalente e talvolta contraddittoria. Una delle scene più intense è infatti quella in cui le ballerine, allineate sul palco, passano improvvisamente da un pianto disperato a una risata sguaiata e poi ancora a un improvviso urlo liberatorio, prima di sfumare lentamente nell’ombra: inatteso momento di teatro-danza usato a mo’ di dimostrazione pratica dell’instabilità emotiva che tormenta l’animo femminile. E poi arriva lei, la vera dea, alta, sinuosa e sottile, che veste alla perfezione i panni di Inanna - avvolta per l’occasione in un rilucente kimono rosso fuoco - e riporta in scena, grazie al suo passaggio fugace e ieratico, il mistero rassicurante del ciclo vitale. In questa magica apparizione la Carlson sembra non avere età e, nonostante i sessant’anni superati da tempo, riesce ancora a sprigionare il fascino magnetico che l’ha resa celebre sui palcoscenici di tutto il mondo.

La carriera di Carolyn Carlson comincia a metà degli anni ‘60 negli Stati Uniti, presso la scuola di Nikolais, il quale, riconoscendone fin da subito il ruolo carismatico, la onora nel 1969 del titolo di solista, unica eccezione in questa compagnia dichiaratamente antistar. Proprio i suoi incisivi assoli saranno all’origine del successo in Europa, dove si trasferisce nel 1971 esordendo all’Opéra di Parigi, nel 1973, con “Densité 215”. L’anno successivo l’allora direttore artistico del teatro chiede a Carolyn di costituire un gruppo sperimentale all’interno dell’Opéra e inizia quindi, con questa significativa proposta, l’incessante attività pedagogica della coreografa californiana che negli anni ‘80 giunge anche in Italia, dove insegna al Teatro Danza La Fenice (tra gli altri, si forma nella compagnia veneziana anche Michele Abbondanza, protagonista, insieme alla compagna Antonella Bertoni, del prossimo appuntamento di “In danza”). Più volte la Carlson ritorna sul tema dell’universo femminile, declinato in chiave personale negli assoli “Blue Lady” (1984) e “Vu d’ici” (1995); questa volta il punto di vista autobiografico viene però contaminato dalle memorie di altre donne, le sette formidabili interpreti (quattro sono italiane) a cui Carolyn affida la narrazione a passo di danza di “Inanna”: vera e propria ode, seppur velata di sottile ironia, all’essenza profonda della femminilità.

Lo spettacolo scorre in maniera veloce e fluida, alternando momenti di stasi a momenti frenetici che rispecchiano le molteplici identità della donna moderna, nevrotica e indaffarata nelle faccende familiari o lavorative, ma costretta allo stesso tempo ad essere charmante e seduttiva, nonché a conservare il suo ruolo materno e quello - più immaginato che reale - di angelo del focolare. Molto divertente è la riflessione che la Carlson dedica alla sessualità femminile, analizzandone ironicamente le convenzioni e gli attributi. Le danzatrici entrano in scena ondeggiando e sbilanciandosi in maniera ridicola e pericolosa su altissimi tacchi a spillo, costrette in abiti attillati e trascinate da impellenti esigenze corporali, incarnate da una finta mammella siliconata e girovaga che non permette loro di controllare in maniera consapevole un corpo in preda alle passioni.

Le voci delle stesse danzatrici accompagnano il fluire continuo della narrazione e delle emozioni, su cui aleggia, grazie alle foto usate come scenografia, lo spettro di un’altra emblematica figura femminile: Francesca Woodman, fotografa americana morta suicida all’età di 23 anni, a cui è dedicato lo spettacolo. L’invito lanciato dalla Carlson a tutte le donne è quello di liberarsi dalle molteplici maschere che frenano l’esistenza e che, sul palco, rendono mostruosi i corpi nudi delle danzatrici in una potente scena finale.

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