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QT n. 5, 8 marzo 2003 Servizi

Bioessicatore: inquinamento zero

Intervista al dott. Emilio Benfenati dell’Istituto Mario Negri di Milano

“Non si possono certo confrontare le 900 pagine dello studio dell’Università con le 5 paginette dell’Istituto Negri...” Questa pessima battuta del presidente Dellai, indica l’accanimento con cui i sostenitori ad oltranza del maxi-inceneritore hanno tentato di impedire che si prendessero in considerazione ipotesi alternative. Così del bioessiccatore si è detto che era una tecnologia troppo nuova, non sperimentata, inutile, e infine, attraverso il famoso studio dell’Università, che inquinasse ben quattro volte più dell’inceneritore. Poi è stata pubblicizzata la ricerca dell’Istituto Mario Negri (la massima autorità in Italia nel campo delle diossine) che ha ribaltato il giudizio. Di qui ancora grotteschi tentativi di discuterne la validità (“900 pagine contro 5...”). Ma poi la prima marcia indietro: si prenderà in considerazione anche il ciclo della bioessiccazione.

ll dott. Emilio Benfenati, responsabile del Laboratorio di Chimica e Tossicologia dell’ambiente dell’Istituto Mario Negri di Milano.

Per fare il punto sulle attuali conoscenze scientifiche in proposito, abbiamo intervistato l’autore della famosa ricerca, il dr. Emilio Benfenati, che nell’Istituto Negri è a capo del Laboratorio di Chimica e Tossicologia dell’ambiente.

Sinteticamente, quali sono i risultati della vostra ricerca?

Abbiamo voluto verificare sul campo se da un impianto di bioessiccazione vi fosse emissione di diossina nell’atmosfera. Abbiamo quindi considerato l’aria dell’ambiente circostante il bioessiccatore, l’aria all’interno dell’impianto, l’aria emessa dal camino.

E avete trovato...?

Che l’atmosfera esterna è più inquinata dell’aria interna, e ancor più di quella emessa”.

Cioè il bioessiccatore inquinerebbe zero, addirittura purificherebbe l’aria. Come si spiega?

Le diossine sono composti solidi, una sorta di particolato. L’impianto funziona facendo passare dell’aria, presa dall’esterno, attraverso il rifiuto; il quale ha notevoli capacità di assorbimento del particolato presente nell’aria. A questa dinamica si somma poi, nello scarico sull’esterno, la presenza di un biofiltro. In conclusione: diossina non se ne forma nel processo di fermentazione che è caratteristico dell’impianto (peraltro a una temperatura di alcune decine di gradi, alla quale il rifiuto non brucia, ma si asciuga). Viceversa l’aria presa dall’esterno risulta filtrata, sia dal rifiuto, sia dal filtro sullo scarico.

E’ questo il primo esperimento condotto sul campo?

Che io sappia sì. Sono in corso altri studi per verificare il fenomeno, ma non ci aspettiamo variazioni rispetto a quanto da noi trovato. Gli approfondimenti serviranno soprattutto per meglio tarare la resa dei filtri.

L’Università di Trento sta conducendo un analogo studio, ma non su un impianto vero, bensì su un modello.

Probabilmente lo trovano più comodo da gestire, da manipolare per studiare variazioni. Alla fine però si deve sempre fare riferimento al caso reale.

Quale è lo stato degli studi sulle emissioni di diossina?

Per gli inceneritori il problema diossina è noto dal 1977. Lì c’è la combustione a temperature molto elevate, e a generare diossine è proprio la combustione, come ad esempio quella delle sigarette o degli autoveicoli. Però la diossina è un fenomeno, purtroppo, ubiquitario, ce n’è perfino negli alimenti, sia pur in quantità molto basse. Ce n’è anche nei rifiuti: ora la legge norma le emissioni degli inceneritori, dove, essendoci combustione, è nota la presenza delle diossine; ma non dice nulla sui processi a freddo, come i bioessiccatori. Bene, noi abbiamo voluto studiare questi processi.

Vi siete occupati anche di altri inquinanti?

La diossina è solo uno dei tanti elementi da prendere in considerazione, ma è il punto centrale. In questi anni, proprio l’allarme sulle diossine ha permesso di realizzare tecnologie che sono riuscite a ridurre, anche di 100 volte, le emissioni degli attuali inceneritori rispetto a quelli antiquati. Ma parallelamente si è visto come le diossine siano più tossiche di quanto pensassimo anche solo 15 anni fa, perché producono degli effetti anche alle dosi, pur minime, cui siamo esposti come inquinamento di fondo. Questo ha fatto sì che ogni volta che le organizzazioni internazionali hanno rivisto i limiti, li hanno ristretti. Ed ecco il motivo per cui le emissioni degli inceneritori, pur così ridotte, siano ancora da considerare.

Può spiegarsi meglio?

Noi siamo esposti alla diossina attraverso il cibo, in cui finisce per arrivare una porzione delle diossine presenti nell’ambiente. Questo il motivo per cui le legislazioni sono sempre più stringenti.

Di qui anche l’interesse per un processo che tratterebbe i rifiuti senza rilasciare diossina...

Certo. Però, attenzione: la bioessiccazione è parte di un processo più complesso. A valle del bioessiccatore ci sono ulteriori trattamenti...

Dal bioessicatore esce il CDR (combustibile derivato dai rifiuti). Si tratta di quantità più ridotte, circa del 50%, ma da smaltire. Quanto inquina la combustione del CDR?

Si tende a considerare la combustione del CDR analoga a quella di un rifiuto non trattato. In realtà il CDR è un prodotto più omogeneo, produce una combustione costante: in definitiva il processo può essere meglio gestito. Però, per ottenere i migliori risultati, essendo il CDR un materiale differente dal rifiuto, anche l’impianto deve essere specificatamente progettato.

I sostenitori della bioessiccazione vantano la flessibilità dell’impianto: mentre un inceneritore progettato per una certa quantità, quella deve per forza bruciare, un bioessicatore può adattarsi a mutate esigenze.

Sì, il bioessicatore può funzionare con quantità diverse da quelle previste, non ha bisogno di raggiungere e mantenere certe temperature come un forno. Per cui il gestore può permettersi una certa elasticità.

C’è chi sostiene che le comunità che incentrano lo smaltimento dei rifiuti sull’inceneritore, poi non spingono sulla raccolta differenziata. E’ vero questo fenomeno?

L’inceneritore smaltisce tutto, in maniera indifferenziata. E’ una soluzione comoda, ma non molto astuta. Mettere in un forno degli inerti, o altri materiali che alterano il processo di combustione e poi escono con lo stesso peso, è una cosa che ha poco senso.