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QT n. 2, febbraio 2019 Cover story

Razzismo: il dovere civile di reagire

Il diverso non ci spaventa, ci incuriosisce. A meno che qualcuno non ci manipoli. A colloquio con l’antropologo Duccio Canestrini.

Duccio Canestrini

È un giovedì sera e nella redazione di Questotrentino c’è riunione. Parliamo di razzismo e xenofobia, di come le politiche di Salvini alimentino (o sfruttino) quella parte razzista che è (o potrebbe essere) in ognuno di noi. Le interpretazioni, stringi stringi, sono due: c’è chi sostiene che una certa forma di razzismo sia insita in ciascuno e che nasca dalla diffidenza nei confronti di chi è diverso e chi ritiene invece che sia la società ad indurre ad atteggiamenti xenofobi. Per chiarirci ne parliamo con il roveretano Duccio Canestrini, antropologo, giornalista e scrittore.

Esiste una tendenza genetica a discriminare, per così dire un timore insito verso ciò che è diverso da noi?

Stiamo parlando di diversità nelle sembianze, di aspetto fisico dunque e non di costumi. È una precisazione importante perché se parliamo di diversità culturale le cose si complicano: spesso dalle diversità culturali hanno origine conflitti tremendi. Usi, costumi, lingue e religioni sono diversità che possono dare adito a scontri più che non l’aspetto fisico.

E le diversità nell’aspetto? Non sono naturalmente portato ad essere diffidente nei confronti di chi ha la pelle di un colore diverso dalla mia?

Esiste una branca dell’antropologia che si occupa di etologia umana: si sono studiati comportamenti di bambini di pochi mesi nei confronti dell’estraneo; i bebè attraversano una prima fase di curiosità, che poi però sconfina nella paura: sono attratti e impauriti allo stesso tempo. Prima guardano lo sconosciuto e poi si rifugiano nel petto della madre. Questa fase di paura è poi superata, in parte naturalmente e in parte con l’educazione. Il bambino maturando impara a riconoscere nella diversità delle sembianze la comune umanità. Tanto che la letteratura inglese li definisce color-blind, vale a dire ciechi ai colori: per loro il colore della pelle degli amichetti non è un tratto rilevante, giocano e socializzano con tutti.

Ma c’è chi ha paura anche da grande del diverso…

Questa paura è la perpetuazione di una sorta di atteggiamento infantile; è la caratteristica di persone che non sono tranquille, che hanno poche sicurezze, diffidenti, che avvertono l’alterità dell’altro come una minaccia. È tipica di persone che viaggiano poco, perché viaggiare è un antidoto contro ogni forma di xenofobia. Un razzista difficilmente ammetterà di esserlo, spesso sono xenofobi inconsapevoli, manipolabili e manipolati.

Cosa intende?

Se si parla di invasione, specialmente in un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo, si instaurano delle contromisure. Lo straniero è quello che porta via il lavoro o una spesa che lo Stato non può permettersi. Basterebbe informarsi per capire che non è così. È facile indurre la paura in soggetti con queste caratteristiche; questa strategia comunicativa potrebbe essere definita come “spaventismo”. Ma la prima reazione, quella che naturalmente ha un adulto al cospetto di una persona fisicamente diversa, non è di paura ma di stupore e curiosità.

Questo ce lo dice la storia: basti pensare ai primi incontri tra culture diverse, come quando arrivarono in Africa i coloni portoghesi. Quando i primi europei arrivarono in Cina, i cinesi non erano spaventati ma incuriositi e divertiti dal fatto che gli europei gli apparivano pelosissimi, per non parlare della lunghezza del loro naso. Oppure gli indiani d’America, che chiamavano “uomini bisonte” i soldati americani di colore. È normale che il timore si faccia strada quando gli atteggiamenti sono o sono percepiti come minacciosi. L’estraneo che arriva in un gruppo presentando tratti somatici inconsueti suscita sempre una certa curiosità, poi se gli atteggiamenti sono minacciosi si fa strada il timore, che però scaturisce solo da una minaccia percepita.

Come giudica l’odierna situazione in Italia?

In queste ultime settimane mi conforta notare una reazione scioccata allo sdoganamento della xenofobia che cova o covava in alcuni strati della popolazione. La propaganda della Lega fa leva sugli istinti peggiori ed ha gioco facile: tra i meno colti, tra quelli che viaggiano meno, è facile instillare il seme della xenofobia presentando lo straniero come concorrente che ruba il lavoro. Per questo bisogna reagire: qualche anno fa il Cinformi fece una bella campagna di informazione, nel tentativo di sconfiggere questi stereotipi che si sono rivelati duri a morire. Questi pregiudizi sono la parte peggiore del populismo, che si nutre di luoghi comuni. Abbiamo il dovere civile di rintuzzare queste esternazioni razziste, di contrastare ogni singolo episodio di razzismo di cui siamo testimoni.