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QT n. 4, aprile 2016 Monitor: Arte

“Giuseppe Penone: Scultura”

Il tempo dell’uomo e della natura

Forse la prima virtù di Giuseppe Penone è di immetterci in una diversa dimensione del tempo. In un certo senso egli adotta nel suo lavoro di scultore un atteggiamento simile a quello dell’archeologo, applicandolo, invece che al tempo storico o preistorico, al mondo vegetale e minerale. Ma, poiché non è uno scienziato naturale, anche se sembra avere la stessa precisione di osservazione, ciò che gli interessa è mostrare come il gesto dello scultore sia un atto di conoscenza molto speciale, e rendercene partecipi.

Nella grande apertura degli spazi e nella luminosità naturale della mostra in corso al Mart di Rovereto (fino al 26 giugno), la prima della nuova direzione di Gianfranco Maraniello, a un anno dalla sua nomina, sono a proprio agio opere che hanno per lo più dimensioni monumentali, ma pensate per essere godute, paradossalmente, fin nei dettagli, in un dialogo quasi intimo.

Atto di conoscenza, dicevamo. È lo stesso Penone a condividere l’idea che l’uomo comincia a pensare con il corpo, e ciò gli era chiaro fin dal 1968, quando scriveva: “Per realizzare una scultura è necessario che lo scultore si adagi, si sdrai per terra lasciandosi scivolare, senza scendere in fretta, dolcemente, a poco a poco e finalmente, raggiunta l’orizzontalità, concentri l’attenzione e gli sforzi del suo corpo che premuto contro il terreno gli permette di vedere e sentire contro di sé le cose della terra”. Per dire questo non a parole ma da scultore, cosa fa? Accumula, ad esempio, un gran mucchio di foglioline secche e fruscianti – lo vediamo in un efficace filmato, che spesso accompagna le sue azioni – vi si sdraia a faccia in giù, emette delle soffiate lente e vigorose che aprono un varco tra le foglie: ciò che rimane è una forma segnata dal suo corpo e dal suo fiato, e soprattutto, un momento di conoscenza di sé in rapporto a quel particolare dato di natura (“Soffio di foglie”, 1979).

Scrive ancora: “Respirare è la scultura automatica, involontaria, che più ci avvicina all’osmosi con le cose. È l’azione che cancella l’involucro, l’identità data dalla pelle. Ogni respiro ha in sé il principio della fecondazione, è un elemento che penetra in un altro corpo e l’emissione del fiato, il soffio, lo testimonia con la sua forma”.

Sguardo da archeologo. In questa mostra non viene riproposta l’idea originaria che lo aveva reso riconoscibile già all’epoca dell’Arte Povera e che fu presentata anche nella mostra trentina del 1998, cioè lo scavo del tronco di un albero fino a rivelarne uno degli stadi di crescita più lontani nel tempo, mettendo in vista tutti i piccoli rami altrimenti incorporati nel tronco adulto. Qui il tema dell’albero è declinato in altro modo, ricavandone il calco cavo in bronzo, richiamando, attraverso la doratura del suo interno, il fatto che ogni strato di crescita della pianta è prodotto dell’azione della luce, e invitandoci a precipitare con lo sguardo entro quel pozzo luminoso.

Siamo dunque all’immagine e all’idea ricorrente nell’opera di Penone: la pelle. Limite, punto di contatto, matrice di impronte e organo sensoriale che in un certo senso accomuna il corpo dell’uomo a quello degli altri corpi della natura. Questo egli evoca quando ricalca la scorza dei tronchi attraverso il frottage (“Le radici del verde del bosco”, 1987); o si interessa alle stratificazioni e alle venature che appaiono nel marmo (“Pelle del monte”, 2012); o con le spine di acacia produce stupefacenti superfici che fluiscono sotto il nostro sguardo (2006).

L’opera di Penone è un coinvolgente connubio di fatto sensoriale e di pensiero, di osservazione e invenzione. Da un lato egli “vuole essere fiume”, leviga il ciottolo imparando il lavoro fatto nei millenni dallo scorrere dell’acqua. Dall’altro evita l’atteggiamento puramente mimetico, segue un pensiero che l’osservazione della natura gli suggerisce, con risultati che sono al tempo stesso reali e surreali: come quando materializza l’idea di interferire, con la stretta di una mano di bronzo, nella crescita di un tronco, e documenta nel tempo la risposta dell’albero (“Trattenere 12 anni di crescita”, 2004-2016). Oppure immagina, nella maestosa opera orizzontale che domina la seconda sala, che un rullo di marmo lasci l’impronta delle proprie venature, suggerendo quindi anche l’idea di un tempo ciclico e senza limiti (“Sigillo”, 2012).

È il continuo intervenire della dimensione del tempo che conferisce alla sua scultura, come è stato scritto da Alain Fleisher, una quarta dimensione.

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